Quando ho visto il trailer di Wonka ho pensato: oh cielo, ora pure l’opera di Roald Dahl farà la fine di Pinocchio, diventerà il battesimo di fuoco per ogni generazione di registi? Forse no, e anche fosse così, Hugh Grant in versione Oompa Loompa potrebbe essere la cosa migliore che vedrai nel 2024 e lo dico a scatola chiusa, senza sapere cosa sarà di questo anno bisestile, soprattutto se considerate che il mese prossimo -alla Berlinale- verrà presentata la serie dei fratelli D’Innocenzo. Ma andiamo con ordine: Wonka (uno spumeggiante Timothée Chalamet) è un mezzo mago, imprenditore in erba, folle personaggio mitologico e analfabeta di ritorno dai suoi viaggi per i 7 mari per ricreare la cioccolata Wonka, eredità della compianta madre (la tenera Sally Hawkins). Con ingredienti speciali tra cui latte di giraffa e semi di cacao dell’isola degli Oompa Loompa, la cioccolata di Wonka promette alle persone di far dimenticare quella già conosciuta del cartello del cioccolato che domina il mercato mondiale. Un giovane Willy si ritrova in quella che sembra una capitale mitteleuropea agli inizi del Novecento, con un sogno ma povero di mezzi: se la sfiga delle opere di Charles Dickens facesse l’amore col sentimentalismo dei film di Frank Capra, nascerebbe questo Willy Wonka. Raggirato dalla locandiera truffaldina Scubrit (Olivia Colman) Willy crea una lega dei disperati -anche loro ingannati e schiavizzati da Scubrit- creando una amicizia particolare con la giovane Noodle (Calah Lane) che, alla ricerca di sua madre, insegna a uno spaesato Wonka a leggere. Oltre a Scubrit Wonka deve vedersela col triumvirato del cioccolato composto da Bleacher (Tom Davis), Slugworth (Paterson Joseph) e Prodnose (Matt Lucas) supportati dal capo di polizia interpretato da Keegan -Michael Key, un personaggio fiabesco corrompibile coi dolci e che diventa, mano a mano, un degno protagonista di Vite al limite. Dopo la versione creepy di Tim Burton, con un Johnny Depp che dava una sua versione di Willy più simile a Michael Jackson che a Gene Wilder, è proprio alle origini della prima trasposizione del 1971 a cui si fa riferimento, ma non troppo. In molti hanno criticato la mancanza di ambiguità e cinismo nel Wonka di Chalamet, ma è anche vero che nei prequel -questo lo è- all’origine del mito, tutti siamo migliori o peggiori a seconda dei casi. È un Willy ancora ingenuo, giovane e senza fabbrica, Charlie non esiste e la leggenda dei biglietti d’oro deve nascere: le lunghe ciglia di Timothée ricordano quelle di Wilder, così come lo sguardo stralunato, ma tutto il resto è magnificamente suo. Non c’è niente di memorabile -escluso, mi ripeto- Hugh Grant. Paul King (famoso per Paddington) pensava a un Oompa Loompa solitario, snob, stronzo e dandy, e questo insieme di pregi riposava sotto il nome di Hugh Grant (unico Oompa protagonista e attrezzato come un micro-Batman di 45 cm).Poco importa che l’attore di About a Boy si lamenti del lavoro in Cgi, di avere accettato solo per mantenere 5 figli e via dicendo, è assolutamente fantastico, così come a zero stanno le proteste degli attori affetti da nanismo: si chiama recitazione, e se qualcuno proponesse a questi attori di interpretare degli atleti cinesi alti 2 metri supportati dagli effetti speciali, dubito direbbero di no. I detrattori di questa versione di Willy, per loro edulcorata, sono gli stessi che rimpiangono l’opera di Mel Ferrer che lo stesso Dahl detestò: dall’attore protagonista (si narra volesse Peter Sellers) alle melodie troppo stucchevoli passando per lo stesso Charlie, quasi un bamboccione.
L’unica trasposizione che si avvicina realmente al libro, pur con molte differenze -che ci piaccia o meno-, è quella di Tim Burton (che ripristinò il titolo originale di Charlie e la fabbrica di cioccolato). Ma Dahl è morto e questo non è un adattamento, è qualcosa di ispirato a qualcosa che era già liberamente ispirato di suo, perciò tutto è concesso. Wonka non ha le melodie di Rent o di Wicked, ma le musiche (è pur sempre un musical) fanno il loro lavoro diegetico senza infamia e senza lode: ci sono alcuni brani del 1971 come Pure Imagination e altre scritte ex novo da Neil Hannon come A Hatful of Dreams; insomma, sapevamo che Chalamet sapeva danzare (no, non è Fred Astaire) ma la sua voce non troppo profonda, è perfettamente funzionale a un personaggio che vuole trasformare il suo dolore personale, la perdita della madre, in gioia per gli altri. Wonka non è un capolavoro, ma le scene tra Willy e l’Oompa Loompa promettono tante piccole avventure, meravigliosi tableaux che non vedremo mai, e questa voglia insoddisfatta, alla pari di una sigaretta o di un cioccolatino (che ti rende irsuto o ti fa volare) che ci vengono privati, fa sì che il lavoro di Paul King sia un approdo cinematografico affidabile non solo a Natale; d’altronde non è niente di memorabile, ma nella sua onestà e stemperato dell’esagerazione ossessiva compulsiva estetica di Wes Anderson -a tratti lo ricorda- è un film assolutamente delizioso.