Mi trovo ancora a Buenos Aires e vi scrivo calandomi nei panni di un migrante italiano che riflette su sé stesso e sul mondo, in cerca delle sue radici, attraverso i sapori. Guardo Masterchef in differita e, nonostante l’eliminazione di Cassandra abbia reso giustizia alla gara, non riesco a dimenticare quella volta in cui l’ospite d’onore è stato Pierluigi Roscioli, noto per le sue creazioni di pizza romana, che ha stupito portando i suoi capolavori di carboidrati per la prima volta in assoluto nella competizione di cucina più famosa nel mondo. I concorrenti hanno fatto la pizza partendo dall’impasto e dalla lievitazione direttamente in puntata, di notte. Quella di Roscioli è la sublimazione della pizza romana e assieme a Gabriele Bonci rappresentano un’alternativa alla pizza napoletana, dimostrando come la cucina italiana sia un universo di varianti! Per un italiano a cui piace mangiare la pizza, qui a Buenos Aires è un grande interrogativo. Se la vuoi cucinare tu, è difficile trovare farine “normali”. Nei supermercati non hanno la farina 0, più forte e meno raffinata, e nemmeno la comunissima 00, che si trova invece ovunque in tutta la penisola. Qui le farine hanno tre o quattro zeri, per cucinare la pizza alla brace, ho optato per una farina integrale biologica.
Partiamo da un fatto interessante e determinante: l’Argentina è lo Stato nel mondo con la percentuale più alta di pizzerie per abitante. Stando qui, un po’ come Pinocchio nel Paese dei balocchi, passeggio per le strade alberate di una città verdissima e devo costringermi a fermarmi, per non entrare a mangiare dappertutto. Ormai sono qui da più di un mese e ho ceduto più volte, provando numerose varianti della pizza argentina ho capito una cosa: qui la pizza viene servita su una teglia, è coperta di mozzarella al punto che tante volte il pomodoro non si vede (ogni tanto cerca di uscire dalla morsa filante e formaggiosa, trovando qua e là piccole gocce di spazio). La mozzarella è protagonista assoluta della pizza argentina, tanto che la chiamano anche solo “muzza”, diminutivo di muzzarela, una sineddoche gastronomica importante. La pizza muzza più nota è quella con olive verdi (una per ogni fetta), poi c’è la napolitana, con fette di pomodoro intere, o quella ai peperoni grigliati disposti in modo da formare i raggi di una ruota. La pizza di Baires divide il menù con una grande altra, la “fugazza”, che a sua volta ha una gemella cattiva (buonissima) la fugazzetta rellena. Entrambe prendono il nome dalla fugassa - in dialetto genovese - che i genovesi portarono qui, oggi totalmente assorbita in pieno stile argentino. Fugazza e fugazzetta si distinguono dalla pizza perché non hanno la salsa di pomodoro e sono coperte di cipolla bianca, ma in più la fugazetta è anche ripiena. Anzi diciamolo meglio, la fugazzetta è fatta da due dischi di pizza, uno sopra l’altro, con mozzarella al centro e anche sopra, e poi ricoperta di cipolle. Una goduria. Tutte queste varianti della pizza vengono servite in una teglia rotonda. Proprio per questo, penso che la pizza che è pervenuta qui a Buenos Aires in qualche strano modo, abbia un gusto particolare, frutto delle migrazioni e degli scambi, che rievocano un senso di mistero e gioco. Potrebbe derivare da un genere di “pizza di casa”, più familiare rispetto a quella delle pizzerie. Io che grazie alla cucina mi sento libero e anarchico - come la cucina stessa - avanzo le mie duecento lire sul tema: e se la pizza argentina fosse collegata al rotiello o ruoto della tradizione partenopea? Una teglia di alluminio usata per dare forma e cucinare una variante della pizza napoletana “al mattone’”, ma più umile. A Torino si chiama piazza “al tegamino”. La differenza tra la variante in teglia e quella più fortunata e famosa dei vari Sorbillo, Coccia, Iorio eccetera, è che le pizze che sono protette dall’Unesco come heritages intangibili, vengono cotte nei forni a legna ad altissime temperature. Ed è dunque proprio la teglia a garantire una cottura più lenta e a temperature più casalinghe. Per dirla meglio, è la pizza che ti fai a casa, perché non hai il forno della pizzeria. Questo discorso filerebbe liscio se non fosse che qui a Buenos Aires ristoranti e pizzerie usano il forno a legna.
Indagherò meglio sulla storia del forno a legna all'estero, ma la mia tesi gioca sul fatto che questa teglia, allora, se il forno c'è, diventa di fatto inutile. Rimane più come simbolo: il simbolo di un piatto di casa. Qui in Argentina il termine comida casera, cioè “cibo fatto in casa”, non ha lo stesso valore del nostro casereccio. È più inteso come “fatto a mano”, ma neanche fino in fondo; è un po’ come quando in un ristorante italiano scopri che fanno la pasta fresca e ti senti coccolato. Casero qui si riferisce alla casa, alla nonna, al ricordo, alle porzioni abbonanti e ai piatti para compartir (“da dividere”). È una scelta qui, in Argentina, con un pizzico di anti-progressismo che non guasta, anche vedendo certi risultati nostrani. Lo stile casero è rappresentato dal Bodegon, l'incontro tra una bocciofila, una trattoria, una clubhouse. Scegliere di mangiare in un Bodegon e non dove la dieta si ferma sull'uscio, è un atto: si fa assieme a numerosi altri avventori, soprattutto famiglie e gruppi di amici, che aspettano e chiacchierano, aspettando il proprio turno fuori. Lì si trovano tavoli di legno ammassati, vociare altissimo e magliette di squadre di calcio appese sul soffitto e alle pareti, oppure manifesti di film argentini o foto di scrittori come Borges e Cortàzar, mescolate a quelle di calciatori come Messi e Maradona.
La pizza si compartisce nei Bodegon, cosìcome la milanesa - tipica cotoletta gigante - con sopra ovviamente mozzarella e pomodori. In questi locali si mangia tanto, si paga poco e il motto è: mantenere viva la tradizione della comida casera. Nel mio piccolo stolto universo personale, con questo articolo e coi prossimi, vorrei che la pizza, e in generale ogni ricetta, fosse percepita come uno spostamento, una migrazione - anzi il genoma di spostamenti e migrazioni umane - di quelli come me, che alle quattro del mattino scrivono un articolo per scandagliare e celebrare un alimento conteso e che spesso provoca conflitto, che stimola istinti divisivi, gastro-nazionalisti - come Geolier e Angelina Mango a Sanremo o le tremende dinamiche delle guerre contemporanee - per contendersi un territorio comune, come succede tra Ssraele e Palestina. Ma la verità è che ogni nazionalismo crolla in cucina e non perché mangiare assieme sia bello e unisca, ma perché il cibo in sé, dimostra che non abbiamo confini veri e propri. Noi abbiamo il passaporto, la cucina no.