Immaginavamo sarebbe arrivato questo giorno, come per la Regina. In fondo, passati gli ottant’anni i giornali hanno i coccodrilli già pronti, lì nell’iCloud. Eppure fa male lo stesso, la notizia che Jean-Luc Godard non c’è più. Ed è un bene che sia così, perché al male non bisognerebbe abituarsi mai. Però immaginavo anche, scioccamente, che la morte del regista sarebbe stato più simile a quella di Mario Monicelli: lui che si lancia dalla finestra, lasciandoci soli con le nostre miserie umane. E invece no: Godard se n’è andato a 91 anni, dopo gli ultimi anni passati isolato – sulla falsariga di J.D. Salinger - in Svizzera.
“L’immagine è principalmente mistero e pericolo”, si diceva nel suo Freedom and Fatherland, girato in collaborazione con l’ultima compagna, Anne-Marie Miéville. E lui di questo mistero se ne faceva beffe, scardinando completamente la grammatica cinematografica, influenzando e creando - a modo suo - movimenti che si differenziavano dalla Nouvelle Vague: la Nová vlna, il Free cinema inglese, il Cinema novo brasiliano e registi come Olivier Assayas, Vincent Gallo, Jim Jarmusch, Bernardo Bertolucci, Glauber Rocha, Hal Hartley, Woody Allen, Robert Altman, Martin Scorsese - e continuate voi la lista…
Fino all’ultimo respiro è stato il nuovo anno zero del cinema, Jean Seberg e Jean-Paul Belmondo l’Adamo ed Eva di un movimento, almeno inizialmente, liquidato come cinema lo-fi è stato poi derubato dalla video-arte e dall’arte contemporanea. Se guardate il suo Addio al linguaggio (2014), presentato a Cannes, vi pare di vedere lui che parodizza gli altri che copiano i suoi primi lavori.
Godard negli anni meravigliosi, soprattutto i ’60, fu il manifesto corporeo di un decennio che accelerava verso il baratro dei ’70: era pura energia vitale, come quella che contraddistingue da sempre i colleghi americani (e che lui ha esportato donando loro la giusta dignità). Un’energia che non si è mai dispersa neanche in quell’esilio volontario scelto degli ultimi anni. “
Jean-Luc Godard una volta disse che i grandi film sono famosi per i motivi sbagliati” e sono convinta che questo pensiero, forse di Martin Scorsese in riferimento a Taxi Driver, possa applicarsi ai grandi artisti - le cui intenzioni, soprattutto dopo la loro morte, ci rimangono ignote.
Ben prima del Dogma 90 di Lars von Trier e di quegli esponenti parvenu che provano a fare cinema-verità oggi, Godard era libero da ogni costrizione. Ma lo faceva senza quell’impronta politica degli inglesi o del cinema cecoslovacco, che facevano politica nei loro film. Godard era politica: ogni suo gesto, ogni sguardo in camera di Anna Karina in La donna è donna, è politica.
Per Marcel Duchamp la serietà è uno dei peggiori nemici, così per il regista de Il maschio e la femmina che non mancava, con uno ‘sguardo ferito’, di parlare meglio di chiunque altro delle donne in Vivre sa vie e una Femme mariée. Un regista giovane per giovani; un critico feroce (non dissimilmente da François Truffaut) prima del crollo dei quel mondo, prima che tutti finissero a libro paga degli uffici stampa. C’è solo da imparare da lui, e non ho abbastanza tempo qui, nell’epoca del ‘fare uscire la notizia subito senza avere tempo di soffermarcisi un attimo e di metabolizzare’.
Godard ha alterato il montaggio, preso per il culo il linguaggio, frammentato il discorso visivo e la cultura visuale ben prima che lo facessimo noi con Tumblr e i social, estrapolando frame con VLC e rimontando il film a nostra immagine e somiglianza. Basta col cinema narrativo, con l’uso della sceneggiatura per ‘mettere ordine al disordine’: si fanno avanti le interruzioni, l’improvvisazione e la confusione, la storia si fa sulla scena. Ciononostante, come alcuni suoi coevi, Godard si ‘sporcò’ le mani sperimentando con diversi generi cinematografici: il dramma de La cinese, gli adattamenti (da Alberto Moravia) con Il disprezzo; tra fantasia e documentario in Germania nove zero e la fantascienza di Alphaville.
Il cinema di Godard era un modo per prendere coscienza della realtà che per quanto brutale, complicata, triste e devastante, possiede sempre una carica erotica e ironica che ci costringe a mantenere gli occhi aperti ed è, d’altra parte, l’unica cosa che ci rimane. “Io sto al centro, in poltrona, ad ammirare quel che è raro e bello”: ora sei tu, Godard, quella verità in 24 fotogrammi al secondo; e noi al centro sulla poltrona, lasciati “soli” a rivedere i tuoi film.
Se siamo colpevoli di aver dato per scontato un genio simile come si fa con un famigliare simpatico, un po’ folle, che vediamo solo per le feste comandate, allora sono sicura che solo Godard può perdonarci.