“Piacere, Maradona”.
Sono nato nel 1969, se quindi dicessi che ho atteso una intera vita per un momento come questo mentirei. Mentirei perché ho scoperto Maradona, almeno visivamente, solo nel 1982, in quel mondiale che poi vinse l’Italia di Bearzot, nome che comunque avevo già letto ben prima sul Guerin Sportivo che comprava mio padre, e perché so bene dal 25 novembre 2020, data della sua morte che quel giorno non sarebbe mai arrivato. Ma l’ho atteso a lungo, sognando di quei sogni che si fanno a occhi aperti, e che quasi mai si realizzano. Quando poi, in un giorno di dicembre non particolarmente freddo, ecco quella mano tesa verso di me, “Piacere, Maradona”.
Qualche minuto prima…
Scendo di casa. L’ascensore impiega trentotto secondi a portarmi a piano terra dal settimo piano in cui abito. Lo so perché in genere sono in imbarazzo, mentre mi attende un fattorino di Amazon, e un giorno mi sono messo a cronometrare il tempo che ci mettevo, una volta che l’ascensore fosse arrivato al piano. Sono una persona particolarmente puntuale, nonostante un look all’apparenza scapigliato anche piuttosto preciso, se devo andare da qualche parte mi muovo sempre per tempo, calcolando ogni possibile variabile. Sto andando verso via Sottocorno, non troppo distante da dove vivo. Neanche troppo vicino, per essere chiari. Di quelle distanze che non puoi coprire a piedi, a meno che tu non abbia almeno un’ora di tempo per spostarsi, ma che coi mezzi diventano difficoltose, perché non collegate così bene. Quindi opto per la macchina. Ho consultato Google Maps, fatto i miei conti, miei conti che si basavano anche sullo spostamento con l’ascensore e il tempo che avrei poi impiegato per arrivare all’auto, parcheggiata non proprio sotto casa. Non ho però considerato una variabile, un pacchetto che ho intravisto nella cassetta della posta. In effetti è giovedì, giorno in cui passa il postino (da tempo i postini passano a giorni alterni, anche se sospetto che spesso non passino proprio). Un pacchetto che non ho visto nonostante oggi sia sceso due volte, proprio per ritirare dei pacchi, trentotto secondi a scendere, trentotto a salire. Lo prendo, dirigendomi verso la macchina, ma ovviamente sono costretto a fermarmi. Sì, perché contiene il nuovo cd di Simona Molinari, Hasta Siempre Mercedes, album dedicato a Mercedes Sosa e ispirato dallo spettacolo La negra y el pelusa, scritto da Cosimo Damiano Damato che proprio in questi giorni Simona sta cominciando a portare in giro per l’Italia in buona compagnia del suo autore. Sfoglio il booklet, perché sono un boomer, penserà qualcuno, o perché ho sempre dichiarato, coerentemente con quanto scrivo, di non usare Spotify o altre piattaforme di streaming, ma anche perché questo lavoro, edito da Bmg, l’etichetta con la quale Simona ha pubblicato anche Petali, vincitrice giustamente della Targa Tenco come migliore album da interprete, questo lavoro, dicevo, non è uscito digitalmente, quindi o lo ascolti in formato fisico o non lo ascolti proprio. Detto che adoro il formato fisico, per quel provare a andare contro una evoluzione che, riguardo la discografia, è piuttosto una corsa da lemming verso il burrone, c’è che trovo la voce di Simona Molinari quanto di più vicino alla prova provata dell’esistenza di Dio che mi possa venire in mente, con un altro paio di voci, poco più (nello specifico quella di Tosca e quella di Marisa Monte). Arrivo alla macchina, dove fa bella mostra di sé un lettore Cd, costatomi cinque anni fa, quando l’ho comprata, quasi quanto la macchina. Salgo, tolgo il cd che stavo ascoltando, Barbara e altri Carella di Enzo Carella, la traccia Malamore tenuta fissa col tasto repeat, e lo infilo, mentre parto verso via Sottocorno. Sto andando a una presentazione piuttosto singolare, credo, quella di un panettone libanese. L’appuntamento è presso il ristorante Mezé, in via Sottocorno 19, dove alla presenza dei due chef ideatori del panettone, ci verrà raccontata questa originale ricetta. Coadiuvato dallo chef Gino Fabbri, nome storico della pasticceria italiana, il panettone “Mediterraneo”, questo il suo nome, è frutto della fantasia e la cultura dello chef libanese Maradona Youssef, appunto, “Piacere, Maradona”, torniamo al punto di partenza.
Io ho letto distrattamente la mail di invito, quindi, confesso, a sentire quel nome, dopo aver passato circa venticinque minuti, tanti ne ho impiegati a percorrere i pochi chilometri e poi cercare parcheggio, ascoltando la voce divina di Simona Molinari, passare agilmente e con sentimento dallo spagnolo al napoletano, con variazioni sul francese, proprio in compagnia di Tosca, e l’italiano, la Caruso dalliana a impreziosire la tracklist, un album che andrebbe fatto ascoltare come la “cura Ludovico”, qui sarebbe la “cura Simona”, a chiunque voglia approcciare il canto, per capire come si possa essere al tempo stesso tecnicamente impeccabili, precise come una lama da cardiochirurgo, ma anche empatica come quel cuore che il cardiochirurgo taglia, ripeto, qualcosa a metà strada tra l’estasi religiosa, quella vissuta da quei santi che poi si ritrovavano a levitare per aria, e il trasporto carnale che si prova quando la passione è talmente debordante da non prevedere spazi per la razionalità, provate a sentirla cantare Volver, per dire, o Gracias a la vida, per non dire di Mon Amour o Todo cambia, la bungariana, in quanto scritta da Bungaro con Rakele, Nu fil’e voce che già al primo ascolto mi è entrata sotto la pelle come una di quelle spine dei fichi d’India che sono legittimo sacrifico a un piacere altrimenti negatoci dalla natura, e non sentirvi ammaliati, se ce la fate, in caso, ahimè, dovrò avvisare i vostri cari che siete in realtà morti, come il Bruce Willis de Il sesto senso sto parlando con chi non ha più vita dentro di sé, io ho letto distrattamente la mail di invito, quindi, confesso, a sentire quel nome, dopo aver passato circa venticinque minuti, tanti ne ho impiegati a percorrere i pochi chilometri e poi cercare parcheggio, ascoltando la voce divina di Simona Molinari e poi sentirmi dire “Piacere, Maradona” da un giovane uomo vestito da chef, confesso, mi ha lasciato quantomeno spiazzato. Mai quanto la presentazione cui ho poi assistito, qualcosa di non troppo diverso dall’affabulazione intorno alle figure altrettanto divine di Mercedes Sosa e Diego Armando Maradona che Cosimo Damiano Damato ha scritto e che Simona Molinari ha poi trasformato in un album, complice lo spettacolo che appunto al momento gira per il paese e che, se non siete in effetti morti, fatto che farebbe di me la variante in realtà scrittoria del Bruce Willis de Il sesto senso, lui coi morti ci parlava, io scrivo per loro, fareste bene a andare a vedere.
Maradona Youssef, infatti, ci ha raccontato (con Gino Fabbri lì a suo fianco) come in lui sia nata la voglia di provare a dare una versione tutta sua al tradizionale dolce natalizio lombardo, mettendo in quella ricetta italiana tutti gli ingredienti tipici della sua terra, quindi i datteri, il sesamo, il limone, la noce moscata, l’acqua di rose e i fiori d’arancio, oltre che le mandorle. Niente uvette e canditi, quindi, che diciamocelo, a parte forse ai milanesi di settima generazione non piacciono a nessuno. Confesso, oggi sono in tema di confessioni, tanto al ritorno, in auto, ritornerò a vestire i panni dell’asceta, la voce di Simona Molinari a rendere il mio van qualcosa di simile a un hovercraft, a viaggiare a un metro da terra, me lo posso permettere di confessarmi in continuazione, confesso, quindi, che sentendolo parlare di datteri e panettone ho pensato che per una volta tanto il mio essere un curioso buongustaio si sarebbe schiantato frontalmente con qualcosa dal gusto a me ostile. Anche se la narrazione è proseguita affascinante, quando Maradona, mi scuserà se continuo a chiamarlo per nome, ma capirà, ha raccontato di come ha deciso, una volta trovata la quadra per permettere al grande lievitato in questione di impattare, parole brutte scelte da me, non da lui, con quei sapori mediorientali e mediterranei, la narrazione è proseguita affascinante, quando Maradona ha iniziato a raccontare di come poi si sia dedicato a cercare una confezione altrettanto ricercata, giocando sempre su caratteristiche della sua terra. Quindi ecco che ha pensato a una scolta che raccontasse la storia di questo panettone, per come ce l’ha raccontata lui, ma che lo facesse sotto forma di gioco, letterariamente, ma anche letteralmente. La confezione, realizzata da Modiano, quindi, oltre ospitare un mazzo di carte da briscola, perché il Natale è condivisione, ospita al suo interno una vera e propria mappa, piuttosto magica. Ma non è tutto qui, perché la confezione stessa, tagliando lungo dei bordi tratteggiati, offre delle ulteriori carte, decorate secondo la tradizione libanese, i quattro assi della briscola, appunto, figlio della tradizione mamelucca del XI secolo. Anche la confezione delle carte da briscola è decorata partendo da quella tradizione, con un simbolo che indica all’infinito, in tinte blu, come il cielo, e con un fiore, simbolo della vita, al suo centro, questa forma d’arte si chiama tassellatura girih. Non bastasse tutto questo, c’è poi il panettone, che lo chef ha scaldato per noi su una piastra abitualmente utilizzata nelle case libanesi per cuocere il pane (una sorta di padella wok rovesciata, quindi con la parte bombata tenuta verso l’alto). Qualcosa che, confesso, ancora, ci ha portato sempre da quelle parti lì, l’estasi, la prova provata dell’esistenza di Dio, ci siamo capiti. Un mix perfetto, quello dei sapori mediorentali e italiani, delicato, anche accompagnato da una noce di ricotta aromatizzata, come nel nostro caso, qualcosa che sulla carta mai avrei potuto immaginare, ma la vita è bella appunto perché sa sempre sorprenderci. Del resto, come avrei mai potuto pensare a questa congiuntura astrale che mi ha fatto ascoltare Simona Molinari che omaggia la dea della libertà, il modo con cui Maradona ha voluto omaggiare Mercedes Sosa nel giorno della sua morte, proprio un attimo prima di conoscere il mio primo “Maradona”, lo cheg libanese Youssef? Una congiuntura talmente bizzarra che qualcuno, anche in questo la vita è vivida di possibilità, pure di cadere in errore, penserà che me la sia inventata di sana pianta. Anche fosse, provateci voi a parlare nello stesso pezzo, chiamarlo articolo, dai, non scherziamo, di un disco uscito solo in formato fisico, Hasta Siempre Mercedes di Simona Molinari, quindi acquistabile agli spettacoli La negra y el peluso, di e con Cosimo Damiano Damato, neanche su Amazon si trova, altro che Spotify, e un panettone con dentro piccoli pezzi di dattero libanese e di limone, acquistabile o presso il ristorante Mezé, o su Cosaporto.it, mille copie di tiratura, neanche fosse appunto un’edizione speciale di un disco. Io ce l’ho fatta, come si diceva da bambini, andando in bici in maniera spavalda, “senza mani”, del resto quando si vive uno stato estatico viene tutto più facile, roba che quasi quasi, in vista delle feste, faccio mie le parole di Carmelo Bene e tornato nella mia terra natia, le Marche, appaio io alla Madonna.