Lì nei vicoli trasteverini, trotterellando sui sampietrini zoppi centenari, stretti nei nostri pellicciotti delle sere romane di dicembre, siamo arrivati a una porticina, sita in Via della Scala. Pare che questa celebre strada ubicata nella parte più bella di Trastevere, teatro di scorribande di almeno tre quarti del globo, si chiami così perché secoli or sono la levatrice Cornelia pregò l’effigie di una Madonna posta sotto una scala appoggiata a una casa. In braccio teneva sua figlia, nata senza il dono della favella. La bambina a un certo punto cominciò a parlare e quella scala diede il nome alla Via. Tornando a noi, la porticina è quella minuta e illuminata dell'Hostaria del Roody, di proprietà dell'attore romano Rodolfo Laganà. Una lunga e florida carriera alle spalle, con la commedia musicale italiana degli anni Ottanta e Novanta di Antonello Falqui, Garinei e Giovannini e Vanzina. Rodolfo ha grande riconoscenza per Gigi Proietti al quale, dice, deve tutto. Oggi è reduce da un periodo difficile per la malattia che lo ha colpito, ma non molla ed è stufo di sentirsi chiamare in tv solo per parlare della sclerosi multipla. “La televisione del dolore mi ha stancato”, dice. Attualmente è protagonista di Nudo Proprietario 2.0, fino a febbraio p.v., e in cantiere ha anche un disco. “Er còre me sanguina perché Roma, città meravigliosa, è caotica, disordinata e nulla funziona ma mi dispiace vederla così. Però a me me basta un tramonto pe fa pace co me stesso”, spiega. Noi siamo andati a cena da Roody, aperto con il figlio Filippo, un bellissimo ragazzo uscito con grande successo da un’esperienza delicata come quella del trapianto di fegato, per testare la sua cucina romana. Volevamo imboccare vestiti da milanisti come i due tifosi della Curva Sud in incognito nel suo film Fratelli d’Italia, che cercavano di insegnare Grazie Roma al povero Boldi, ma abbiamo desistito all’ultimo. Il locale è piccolo e arredato sui toni del rosso; tavoli semplici e sedie di legno tipiche da osteria. Il Natale è alle porte, che piaccia o no e qui di porte ce ne sono abbastanza, tutte decorate all'uopo. I turisti attorno a noi chiacchieravano facendo scarpetta nei piatti, l’accoglienza è stata di enorme cortesia e noi guardavamo un menù piuttosto curato. Il perfetto preludio a un ottima cena, insomma.
Abbiamo saltato gli antipasti per buttarci sulla carbonara e sui ravioli di ricotta e tartufo. Purtroppo abbiamo avuto l’idea di dare un’occhiata alle recensione del ristorante e tra le moltitudini di stelle regalate dai turisti siamo incappati in quella di tale Iolanda. Quest’ultima appare alquanto alterata per il pessimo servizio e la lunga attesa dei piatti, definendo insapore la carbonara e il riso scotto “che neanche ar San Camillo”. Pare che la Signora Iolanda si sia scolata il Cesanese del Piglio per ingannare la fame e per digerire il conto piuttosto salato, senza amari né caffè. La recensione termina con l’espressione del gradimento della Signora sottoforma di un secco ma de còre “mejo mber panino”. Un po’ inebetiti dalla forza delle parole della Iolanda, restiamo ancor più di sale nel leggere la risposta del proprietario, che inveisce a chi osa lamentarsi con frasi rasserenanti come “questa è casa mia e faccio come cazzo me pare”. Decidiamo di non avere pregiudizi affrontando l’esperienza à la légère. La carbonara arriva nella sua carbonarità, ma bianca e appiccicosa, pareva uscita da un set della Rocco Siffredi Academy. I ravioli erano ben fatti sebbene conservassero un retrogusto di mestizia che onestamente non ci aspettavamo. Pazienza, speriamo di rifarci con i secondi. Il celebre bollito alla Picchiapò dovrebbe parlarci di nonne in parannanza e focolare, sugo pippiante per ore e carne che si sfilaccia al solo tocco della posata. Ci arriva una tazza di pomodoro che in quanto a fuoco pare non averne visto l’ombra, con delle fettine di ciccia a mollo piuttosto coriacee e sottili. No, Rodolfo, no. Non ce partì de capoccia, te prego Rodolfo. Viste le risposte alle recensioni alquanto sopra le righe, indecisi se rimandare indietro la “buatta de sugo” alla Picchiapò, ci abbiamo pensato a lungo. Ma essendo noi dei temerari abbiamo flebilmente fatto presente che, picchiace mpò, a noi er Picchiapò non ci è piaciuto. Scoraggiati come finti gladiatori rumeni dinanzi al Colosseo, abbiamo assaggiato i saltimbocca alla romana, uno dei piatti popolari tra i più amati che vede le fettine di vitella ricoperte da prosciutto crudo e una foglia di salvia, infarinate, cotte nel burro e sfumate poi con il vino. Il nome insomma dice tutto. So così buoni che saltano autonomamente nelle fauci del fortunato che se li trovi dinanzi. O almeno dovrebbero. Perché noi, incerti delle intenzioni dei saltimbocca - che avrebbero voluto coalizzarsi col bollito alla Picchiapò per menarci, più che saltarci in bocca - li abbiamo azzannati ingollandoli interi per non soffrire oltremodo. Noi e loro. Abbiamo dedicato un’ode al pio bove, il quale ci ha risposto con un mesto “e più non dimandare” e l’abbiamo chiusa là. D’altronde non se potevano davvero magnà. Con il timore imperituro che qualcuno ce partisse de capoccia, abbiamo declinato qualsiasi altra offerta del menù, chiudendo con una frittella della casa, perché l’eroe è colui che ove tutti fuggono lui va. Ci è arrivata dunque la straube tirolese, su un laghetto di marmellata che mai navigammo, spolverata di zucchero a velo. “Ahi quanta ne pippai”, citando il Maestro Amedeo Minghi. Abbiamo saldato il conto piuttosto alto con diplomatico aplomb e guadagnato la porta strisciando contro i muri, diretti verso la prima pizzeria a taglio. Secondo voi ci torneremo? Chiedete alla Signora Iolanda…