Quando ero giovane nessuno in città avrebbe usato la parola rom. Proprio nessuno nessuno. Neanche quella sinti, o roba del genere. Tutti, o almeno tutti quelli che ne avrebbero parlato, avrebbero usato la parola zin*ari, al massimo, dando sfogo a una cadenza dialettale, zengheri, da pronunciare con la nostra caratteristica zeta dura, tipo “tz”. Ji zengheri. Per zin*ari, quindi, o zengheri, in città, e per città intendo la mia città natale, Ancona, quella in cui anche ora mi ritrovo a passare qualche giorno estivo, si intendevano le famiglie rom stanziali in zona, ce n’era una piuttosto nota, spesso al centro dei pochi fatti criminosi che finivano nelle pagine di nera locale, più che altro furti, furti con scasso, piccole violenze che oggi verrebbero incluse nel faldone “bullismo”, e vivevano per lo più in case isolate, nella cerchia di quella che oggi verrebbe chiamata periferia. Erano case, come le famiglie stesse, piuttosto note, ci passavi davanti e sapevi che lì c’erano gli zengheri. Sapevi anche, spesso, che li si potevano trovare quegli oggetti che magari ti erano stati rubati durante un qualche furto avvenuto in casa. In genere, come per una qualche regola non scritta ma vigente, gli zengheri non agivano mai nelle case limitrofe alle loro, come a voler tenere buoni rapporti di vicinato, sorte che però non era capitata ai limitrofi supermercati, dove invece capitava spesso di vedere le donne di famiglia infilarsi di tutto sotto queste amplissime gonne che fungevano in qualche modo da cassaforte per la refurtiva. Ogni tanto, neanche troppo raramente, capitava di leggere che uno dei membri di quella famiglia, era una sola ma con diversi fratelli che si era sparsi in giro per la città, finiva in galera, perché colto con le mani nel sacco. Tanto sapevamo tutti sarebbero presto usciti e avrebbero ripreso le loro attività. Nella casa a due piani che si trova a pochi passi da dove oggi passo le mie giornate anconetane, quando lasciata Milano mi trovo a tornare in città per qualche giorno di vacanza, oltre che per stare vicino ai miei cari, ha a lungo vissuto anche una anziana signora, nota come “la regina degli zin*ari”. Una donna le cui maledizioni, si diceva, erano in grado di portare chiunque fino a dentro una bara. Era successo, si diceva, che un giorno un controllore della locale azienda tramviaria le avesse fatto la multa, maltrattandola. Era un omone grande e grosso, famoso per essere il più temibile di tutti, quello che non ti permetteva di scappare, nel caso lo vedessi in procinto di salire sull’autobus e tu fossi sprovvisto di biglietti. Dico questo per vostra conoscenza, perché io, in quanto figlio a mia voglia di tramviere, avevo un abbonamento gratuito, quindi mai mi sono trovato a fare una corsa sprovvisto di biglietto, ma quel controllore lo temevo un po’ pure io, i suoi modi bruschi, autoritari erano a loro volta leggenda. Bene, o male, a seconda di come la si voglia vedere, sembra che il controllore in questione avesse trattato male la donna, che ovviamente gli avrebbe fatto un qualche sortilegio, così, su due piedi. Sortilegio andato a buon fine, perché il tipo ha cominciato a dimagrire, fino a diventare da omone che era tutto pelle e ossa. Si vocifera, ma io a questo non ho mai creduto, che per non morire si sia poi umiliato a implorare perdono alla donna, che magnanimamente glielo avrebbe concesso. Tornando però alla regina degli zingari, il giorno del suo funerale, parliamo di oltre trenta anni fa, la strada circostante la casa, una delle due per cui si ha accesso in città, si è riempita di macchinone, dalle quali scendevano persone vestite in maniera elegantissima, come si confà per il funerale di una regina. Il corteo è andato a passo d’uomo nel cuore della città, arrivando poi al cimitero, con tanto di fanfare e lamenti. Per noi, in città, gli zin*ari, gli zengheri, sono tutti pescaresi. Non solo per una forma d’odio atavico, con grandi motivazioni calcistiche, che vede le due città contrapposte, in fin dei conti si tratti di due grandi città sull’Adriatico, ma perché in effetti le famiglie di zingari di cui sto parlando da lì arrivano, come buona parte degli zingari italiani. Vi sarà capitato, magari, di vedere quelle immagini di appartamenti della periferia pescaresi, parlo di appartamenti in condomini, palazzi, non case singole, dove si vedono cavalli accomodati su balconi neanche troppo grandi. L’ex assessore alla cultura di Pescara, nonché parte della band degli Anticorpi, insieme a Arnaldo Guido, Giovanni di Iacovo, l’ha anche raccontato nel suo romanzo Confessioni di uno zero, quei cavalli sono lì perché quelli sono appartamenti che appartengono, o sono stati occupati, vallo a sapere, a famiglie di zin*ari locali. Quando per anni mi sono trovato a andare a passare parte dell’estate a Vasto, penultimo avamposto sulla costa abruzzese prima del Molise, mi capitava di vedere certe villette molto dimesse, in apparenza, ma dalle cui porte si vedevano marmi e statue pacchiane che si rifacevano all’antica Grecia, esattamente come quelle che poi abbiamo imparato a conoscere nell’immaginario dei vari Casamonica e compagnia, si fa per dire, bella. Anche quelle erano case, anzi ville, di zin*ari.
La casa a due piani vicino a dove mi trovo a passare i miei giorni anconetani, da fuori, è sempre apparsa come una casa di campagna inglobata nella città. Una casa con un suo cortile di fronte, anche un cancello di ingresso, dove spesso si vedevano moto di grossa cilindrata e auto di quelle che in genere si associano a chi ha molti soldi. Uso il passato perché col tempo la casa ha cominciato a cadere a pezzi, nessun lavoro di manutenzione, neanche quelli più semplici da portare avanti. Morta la regina, sembrava a occhio esterno, chi era rimasto ha cominciato a disinteressarsi alla forma, lasciando che l’usura del tempo avesse la meglio. Questo finché, qualche tempo fa, saranno passati un paio di anni, il tempo e l’usura hanno presentato il conto, conto che si è manifestato sotto forma di un tetto che è crollato, di persiane che sono cadute dalle finestre, al punto che da un giorno all’altro la casa è stata abbandonata. Nel mentre, ma questo non credo abbia avuto rilevanza rispetto l’abbandono della casa, alcune delle persone che lì vivevano sono finite a Montacuto, che per chi non fosse pratico della zona è il carcere che si trova in città, famoso per aver ospitato Ali Agca e, per qualche giorno, Totò Riina. Ricordo, poi passo a raccontare i fatti di cui vi sto in realtà già raccontando, sempre in questa mia maniera non lineare, che quando facevo l’obiettore di coscienza, trent’anni fa esatti in questi giorni, operando in un dormitorio per senza fissa dimora di Falconara Marittima della Caritas, ho preso parte a un incontro cittadino cui ha preso parte anche un sacerdote che conoscevo. Il tema dell’incontro era appunto inclusione di alcune famiglie rom, anche all’epoca nessuno le chiamava così, mi sembra di ricordare, arrivate da poco in città. Il motivo del loro arrivo, e quindi l’ipotesi di includerli o meno, ipotesi messa a rischio dai comportamenti criminosi degli adulti della famiglia, che avevano già preso a rubare e taccheggiare in giro, e di bullismo da parte dei minori, che nelle locali scuole si erano già ben messi in evidenza, era il fatto che Falconara Marittima puntava decisamente a raggiungere quota quarantamila abitanti, vado a memoria, così da poter mettere mano a certi finanziamenti statali per città di una certa grandezza. Mancavano poche unità, e il Comune aveva deciso di invitare alcune famiglie di zin*ari che vivevano in un campo dalle parti della foce del fiume Esino, vicino a quella che ancora era la Caserma Saraceni, famosa perché sede di Car di molti militari, oltre che della sede dell’Api, la raffineria di petrolio che si può ancora vedere passando in zona in auto o, ancora meglio, in treno. La cittadinanza, il resto della cittadinanza, non aveva apprezzato il gesto del Comune, anzi, lo aveva proprio osteggiato, al punto che si era dimostrato necessario un incontro pubblico per parlarne, incontro nel quale il sacerdote in questione, capita spesso ai sacerdoti che si trovino a operare in situazioni estreme di perdere un minimo il senso della misura, aveva fatto un elogio della cultura e tradizione rom degna di una saga celtica, scatenando quasi una rissa. Mi è capitato di recente di essere parte di un incontro sui trapper con don Claudio Burgio, sacerdote che ha fondato a Brugherio la comunità Kayros che ospita buona parte dei trapper più famosi, da Baby Gang a Simba La Rua, agli arresti domiciliari, e anche in quell’occasione ho constatato questo trasporto, con don Claudio a raccontare di questi artisti con parole che in genere si riservano ai geni della musica, sminuendo, agli occhi dei presenti, i vari crimini da loro commessi, o quantomeno giustificandoli viste le loro origini periferiche e comunque di emarginazione. Io, che passavo le giornate a sedare risse tra altrettanti emarginati, ex carcerati, migranti, sfollati dalla limitrofa guerra nei balcani, avevo degli zingari una visione meno pittoresca, forse proprio per quel mio averli sempre visti in città a compiere piccoli crimini impunemente. Comunque, quando più di una volta mi è capitato di assistere agli scontri tra gli ultras dell’Ancona, che si facevano trovare in stazione al passaggio del convoglio che ospitava quelli del Pescara, diretti a nord o di ritorno dal nord, ho sempre trovato quei cori “Zin*ari, zin*ari” piuttosto a tema.
Quando quindi ormai da qualche tempo il tema dei rom è divenuto popolare, perché quei microcrimini cui ho sempre assistito hanno prosperato un po’ in tutta Italia, specie nelle grandi città, dando stura agli sfoghi razzisti e violenti dei partiti di destra, Lega e Fratelli di Italia in testa, addirittura con quel passaggio del termine “rumeno” in “romeno” così da includere in questi sfoghi anche tutte le persone provenienti dalla Romania, le famiglie rom, a parte quelle italiane di cui sopra, spesso arrivano a noi dai paesi dell’est, Romania, Moldavia, in effetti, mi è sembrato tutto decisamente eccessivo. Sentir parlare di bambini rapiti, rispetto al furto di autoradio o di prodotti dentro il supermercato lì a due passi da casa, mi sembrava tanta roba, come mi sembrava tanta roba quel leggere di violenze perpetrate ogni due per tre, perché ho sempre saputo di una certa dedizione al furto, anche in casa, certo, una volta sono anche venuti a rubare in casa mia, sempre una trentina di anni fa, ma da qui al parlare di gang di zingari che si aggirano per la città, onestamente, mi sembrava davvero troppo. A Milano, città nella quale vivo, i rom io li ho sempre visti solo e soltanto in metropolitana, a chiedere elemosina e, recentemente, quasi solo nei servizi di Striscia la Notizia, a borseggiare, oppure fermi ai semafori a sporcarti il vetro della macchina fingendo di lavarlo, più che altro rompendoti i coglioni e obbligandoti a dargli qualcosa, ignare, forse, che nel mentre nessuno va più in giro con il contante, a Milano. Un lungo cappello, questo, che mi porta a oggi. Anzi, a ieri. Perché ieri, quaranta gradi e un tasso di umidità che credo neanche nella foresta vietnamita mentre un elicottero americano ci buttava sopra barili di Napalm con Wagner sparato dalle casse di uno stereo, ho assistito al mio primo rave zingaro. Vorrei star qui a dirvi che l’ho fatto con la dedizione del cronista, microfono in mano a fare domande agli astanti, o con lo spirito gonzo del miglior Hunter S. Thompson, a fingermi zingaro per vivere la cosa nel migliore dei modi, ma non sono un cronista né un giornalista, e che quando Raoul Duke ha finto di essere un Hell’s Angels sia poi finito dentro un cassonetto con tutte le ossa rotte mi è ben chiaro, quindi niente di tutto questo, ho assistito al mio primo rave zin*aro, ma l’ho fatto da lontano, con una visuale e soprattutto una postazione d’ascolto perfetta, ma senza star lì a correre rischi di sorta. Il fatto è che nonostante la casa a due piani di cui vi ho raccontato sia stata ormai abbandonata da tempo, il tetto sfondato che coi mesi si è sempre fatto più malmesso, ieri gli zingari, gli zengheri, sono tornati, e sono tornati per festeggiare un compleanno. Nel farlo, sono pur sempre zin*ari, hanno voluto esagerare, portando sul cortile un maxischermo di quelli che in genere si usano d’estate per trasformare certe arene in cinema all’aperto, ma cinema all’aperto in grado di ospitare qualche migliaio di persone, e con un impianto audio che, immagino, abbiano affittato da Live Nation, cioè quello che è stato usato ai tempi del Modena Park per far ascoltare bene le canzoni di Vasco a chi si trovava a qualche centinaia di metri dal palco del Parco Enzo Ferrari di Modena, parte dei duecentotrentamila presenti. Che qualcosa di strano stesse per accadere mi è subito parso evidente, perché di colpo quel vialettino deserto si è riempito di auto, non più di grande cilindrata come in passato, ho addirittura colto una vecchia Fiat Panda, o tempora o mores, il che mi faceva pensare magari a una occupazione da parte di chissà chi. Sì, perché nel tempo quella casa abbandonata era stata presa d’assalto da alcuni immigrati senza fissa dimora, alcuni di quelli che vivevano al Passetto, al mare, dormendo a pochi passi dalla battigia, magari, ma proprio le condizioni pericolose del tetto avevano prontamente indotto le forze dell’ordine a farli andare via, per una volta davvero interessati all’ordine pubblico invece che a far valere la propria forza.
Quando poi ho visto l’allestimento di quel maxischermo, forse per quella forma di esperienza professionale nel campo dell’intrattenimento che ho maturato negli ultimi trent’anni, da che cioè, poco meno, non vivo più in città, ho subito capito a cosa sarei andato incontro. A un rave, che in realtà è definibile tale solo per due precisi motivi, per i volumi spropositati della musica, ben oltre la soglia del dolore, e per un uso non propriamente straght edge degli alcolici, specie dei superalcolici. Credo invece che non sia ascrivibile alla cultura rave né la musica che ha fatto da colonna sonora, né la presenza di minori, e per minori non intendo diciassettenni, sia chiaro, ma bambini, per non dire del fatto che tutti, ma temo proprio tutti tutti, si siano trovati a cantare di fronte a un microfono, neanche fossimo di colpo stati proiettati indietro di venticinque anni, circa, a quando Slim Shady era appena venuto alla luce, Slim Shady ch è morto da poco per mano del suo alter ego Marshall Matthers alias Eminem, e tutti i ragazzani volevano diventare rapper sulla falsa riga di quanto mostrato in 8 Mile, lì a prendere parte alle serate open mic in giro per l’Italia. Un rave zin*aro, in pratica, è qualcosa che si trova a metà strada tra un karaoke non molto raffinato, sparato a volumi violentissimi degni di un Michael Haneke, e una festa estrapolata da un film di Emir Kusturica, solo tutto molto più cafone e caciarone. Una serata, e per serata intendo qualcosa che è iniziato verso le nove ma è finito ben oltre le due di notte, a base di canzoni neomelodiche di artisti che, giuro, anche io che amo frequentare a volte il trash non ho mai sentito nominare, tutte storie di malavita, a occhio e croce, con bambini di sette o otto anni che cantavano di come si viva a Poggio Reale o Nisida. Il tutto annaffiato, ero lontano ma avevo una visuale perfetta, da una finestra, alla faccia del racconto di David Foster Wallace E Unibus Pluram, a volte si può guardare il mondo da una finestra senza essere visti, altroché televisione, il tutto annaffiato da vino, birra, sambuca e via discorrendo. Una roba sparata a volumi così alti che, giuro, in casa ci ballavano i piatti dentro la credenza, e provateci voi poi a dormire all’una di una notte da trenta gradi centigradi, perché di notte la temperatura questa estate non sembra voler scendere mai, con il letto che balla per i bassi sparati da un impianto audio a neanche cento metri da te. Mio figlio Tommaso, che è comunque il più antico tra i membri della nostra numerosa famiglia, spinto da mia suocera ha anche chiamato un paio di volte la polizia, polizia che ha risposto di essere stata già avvisata più e più volte, avessi chiamato io avrei quindi detto “e cosa aspettate a fare qualcosa, che arrivi Charles Bronson?”, e in effetti un paio di volte la polizia è arrivata. Solo che, arrivati al vialetto di ingresso, magicamente la musica è scesa, salvo poi risalire ancora più violenta di prima appena i poliziotti sono risaliti in auto. Una terza volta, credevo, è stata accompagnata da largo spiegamento di sirene, il che mi ha fatto pensare che fosse un arrivo in grande stile, come dire: adesso basta, avete rotto i coglioni. Invece era solo l’intro di una canzone che parlava, appunto, di inseguimenti e fughe, i neomelodici sanno come rendere bene certe tematiche e immaginari.
Il passaggio che sto per fare adesso, cioè tornare dal neomelodico al tema rom, mi potrebbe venire assai facile se decidessi di attingere a quel pozzo pret-a-porter di tematiche di emarginazione pop che risponde al nome di Mare fuori, perché, se lo avete visto lo sapete, altrimenti fidatevi sulla parola, lì ci sono almeno un paio di personaggi che stanno con un piede da una parte, l’immaginario delle canzoni neomelodiche, immaginario che riguarda praticamente tutti i protagonisti, ovviamente, e uno dall’altra, l’immaginario rom. Parlo ovviamente di Naditza, interpretato a grande rischio di appropriazione culturale da Valentina Romani (stando ai canoni woke avrebbe dovuto interpretarla, che so?, Brenda Lodigiani), e del personaggio di Milos, interpretato con gli stessi rischi da Antonio D’Aquino. Perché le storie dei ragazzi di Mare fuori, ampiamente conosciute dalle nuove generazioni, che di questa serie Tv sono state appassionate fruitrici, hanno mushuppato proprio questi due mondi, esattamente come è accaduto sotto i miei occhi, e soprattutto le mie orecchie, ieri sera, manco fossi stato posseduto dallo spirito di Cosmo. Di fatto, questo il punto, al di fuori dall’indubbia fascinanzione folkloristica che gettare momentaneamente lo sguardo su un mondo che ci è altrimenti sconosciuto come quello degli zingari, resta che il vivere ai margini, spesso delinquendo ai danni della popolazione neanche troppo benestante (rubare in un supermercato colpisce sì i proprietari della catena, ma nello specifico finisce nell’impattare principalmente in chi in quello specifico negozio lavora) ci ha fatto sempre guardare a questa realtà come a qualcosa dalla quale tenersi alla larga, mica per niente per spaventare i piccoli, anche qui, ci si alternava dall’evocare un fantomatico “uomo nero” tanto quanto “gli zin*ari”, con frasi non esattamente montessoriani, anche la Montessori è di queste parti, come “se non mangi vengono gli zin*ari e ti portano via”, alla faccia del famoso sermone del pastore Niemoeller, noto col titolo di Prima vennero (dai, quello che recita “prima vennero a prendere gli ebrei, poi gli zingari, poi gli omosessuali” alternato dalla chiosa “e io volsi lo sguardo altrove”, salvo poi chiudersi con “quando vennero a prendere me non c’era più nessuno”). Siccome però ci piace essere costruttivi, forse per rendere omaggio a Santa Maria De Filippi che sulla critica costruttiva ha portato al suo cospetto tutti gli Amici a quattro zampe che durante il Festival di Sanremo animano la Sala Stampa, mentre ancora ho le orecchie che rimbombano, come se avessi un acufene tutto giocato sulle frequenze basse, di quelle che ti colpiscono stomaco e intestino, per intenderci, siccome però ci piace essere costruttivi, dicevo, vogliamo chiudere, e uso il noi solo per una botta di ego, con un altro ricordo del passato. Un giorno, infatti, questo forse quaranta anni fa, io e un altro gruppo di ragazzi e ragazze siamo andati a far visita proprio a quella casa, quella del rave zingaro di ieri notte. Ci siamo andati accompagnati da un prete di Cl, cioè Comunione e Liberazione, che voleva mettere in pratica un’attitudine allora misconosciuta, oggi conosciuta più che altro a parole, si legga quel che nel mentre sta capitando intorno alla presenza di transgender e maliane alla cerimonia di inaugurazione delle Olimpiadi di Parigi: l’inclusività. L’idea era, se li conosci ne hai meno paura, vedi che sono come noi, quindi non li emargini. Negli stessi mesi, da qualche parte negli uffici delle pubblicità, lì cioè dove dei copy partoriscono slogan destinati a rimanere nei decenni, qualcuno partoriva il claim “se lo conosci lo eviti”, pensa te. Siamo una ventina di ragazzi, e non so per quale motivo la famiglia che lì abitava fino a poco fa, ancora la regina degli zingari era viva e regnante, ci accoglie, forse altrettanto incuriosita dal conoscerci. Tra noi c’è anche un ragazzo di colore, il solo che io ai tempi conoscessi, e anche oggi non è che ne conosca poi così tanti, a parte alcuni amici di mio figlio, il più antico ma anche il solo che ha frequentazioni internazionali. Il ragazzo è figlio di una signora etiope sposata con un anconetano. I due hanno un negozio di manufatti etiopi in via degli Orefici, una via molto caratteristica del centro storico, e suo fratello maggiore è fidanzato con la sorella di un mio compagno di scuola, primo caso di coppia mista che io ricordi. Lui si chiama Eriberto, e credo di poter dire a ragione veduta è uno dei ragazzi più simpatici che ricordi in quel gruppo. Dico questo non per dimostrare chissà quale apertura di noi anconetani, gli anconetani sono famosi proprio per essere particolarmente chiusi verso l’esterno, nonostante o forse proprio perché Ancona è una città col porto. Lo dico perché Eriberto è protagonista di questa scena. Entriamo, ben accolti, e giriamo per la casa, vedendo mobili non troppo diversi da quelli che in effetti troviamo nelle nostre case. Anche loro, gli zin*ari, visti da vicino, a parte quei vestiti un po’ buffi, le gonne larghissime, le bluse, non sono poi così diversi da noi, penso. Tutto sembra procedere bene finché non entriamo in sala, dove fa bello sfoggio di sé uno stereo nuovo di zecca, erano ancora gli anni del vinile, quindi c’era il piatto per i dischi, l’equalizzatore, la parte col lettore di audiocassette, le casse. Il tutto corredato da un adesivo, mentirei se dicessi di ricordare esattamente quale, comunque un segno distintivo, che lo rendeva unico. Arriviamo lì, ci disponiamo in cerchio, con gli zingari da un lato e noi dall’altro, come un coro greco, il sacerdote a fare da mediatore culturale prima che le parole mediatore e culturale fossero mai state usate assieme. A quel punto Eriberto apre bocca e dice una frase che, a pensarci ora, ancora rido: “Bello quello stereo, è il mio”. Ora la musica è finita, posso finalmente andare a dormire.