Così fan tutti, si è giustificato Carlo Ancelotti, a processo in questi giorni in Spagna per evasione fiscale. L’allenatore del Real Madrid è accusato di non aver pagato tasse per circa 1 milione di euro tra il 2014 e il 2015, durante la sua prima esperienza sulla panchina del Real. Ancelotti ha detto che non era consapevole di stare violando le leggi e che ciò che gli interessava era ricevere per intero i 6 milioni di euro netti previsti dal suo accordo con il club, e a ben vedere non c’è ragione per non credergli. Il denaro non pagato al fisco riguarda i cosiddetti diritti d’immagine, un tema sempre più discusso nel mondo del calcio a livello finanziario, ed era stato lo stesso Real Madrid a suggerire all’allenatore di agire in quel modo.
“Lo fanno tutti i giocatori, anche Mourinho” ha detto ai giudici, riferendosi anche al suo predecessore alla guida del club madrileno. E il punto è che ha ragione: negli ultimi anni i diritti d’immagine sono diventati il modo con cui molti club riescono ad aggirare almeno in parte la pressione fiscale relativa agli ingaggi di giocatori e allenatori. Per farla semplice, stiamo parlando della possibilità, da parte di un tesserato, di stipulare accordi di sponsorizzazione con altre aziende, diventandone di fatto testimonial.

Ma in alcuni casi giocatori e allenatori possono decidere di cedere il diritto di sfruttamento della propria immagine al club per cui lavorano, ed è qui che nasce il problema. I diritti d’immagine sono scollegati dagli stipendi, da un punto di vista finanziario, e possono quindi essere tassati in maniera differente: basta costituire una società di gestione della propria immagine con sede in un paese con una tassazione più bassa rispetto a quello in cui si lavora. Il club paga quindi uno stipendio nominale più basso al suo tesserato, e la restante parte diventa il compenso per lo sfruttamento di questi diritti, che però essendo tassata meno fa sì che il totale lordo per la società sia più basso, e che anche il tesserato in questione possa pagare meno tasse.
Nel caso di Ancelotti, per esempio, i suoi diritti d’immagine erano stati ceduti alla Vapia Limited, un’azienda con sede nelle Isole Vergini Britanniche, un noto paradiso fiscale. Ma non si tratta di un caso isolato, come lo stesso tecnico emiliano ha sottolineato; il guaio è che di frequente i suoi colleghi che hanno ricorso a questo stratagemma sono stati condannati dalla giustizia (sebbene tutte le sentenze sono successive al 2014, quando Ancelotti stipulò l’accordo col Real Madrid). Per cui sì: è quello che fanno tutti, ma poi ne subiscono le conseguenze.
Nel 2017 Leo Messi, stella argentina del Barcellona, era stato condannato a 21 mesi di prigione (poi convertiti in una multa di 455.000 euro) per aver evaso circa 4 milioni di euro in diritti d’immagine relativi al periodo tra il 2007 e il 2009. Due anni dopo Cristiano Ronaldo ha ricevuto la stessa sentenza, dopo che il Tribunale di Madrid lo ha ritenuto colpevole di aver costituito società offshore nelle Isole Vergini Britanniche e in Irlanda per non pagare le tasse sui diritti d’immagine per il periodo 2011-2014, quando giocava al Real. E un mese dopo era stato condannato per lo stesso motivo anche José Mourinho.

Appare abbastanza evidente come questo stratagemma sia largamente usato dai club spagnoli, che hanno una storia lunga e molto discussa in merito alla tassazione per i calciatori. Negli anni Duemila la Liga si affermò come una meta molto allettante per i giocatori non solo per l’alto livello delle sue squadre, ma anche per il regime fiscale molto vantaggioso. Questo era dovuto alla discussa “legge Beckham”, una riforma della tassazione emessa nel 2005 che garantiva aliquote molto più basse ai lavoratori stranieri che si trasferivano in Spagna e che guadagnavano oltre 600.000 euro all’anno.
La legge doveva il suo nomignolo a David Beckham, per via del forte sospetto che Florentino Pérez, presidente del Real Madrid, avesse fatto pressioni sul governo per ottenere una riforma che gli consentisse di pagare meno tasse sull’elevatissimo stipendio del calciatore inglese. Ma Pérez avrebbe ottenuto un simile favore dalla politica anche l’estate scorsa, quando la Comunità di Madrid ha introdotto un nuovo sconto fiscale che la stampa spagnola ha prontamente ribattezzato “legge Mbappé”.

In Italia le cose funzionano in maniera diversa, e se non altro nel nostro paese la questione sembra avere una rilevanza minore. I club della Serie A generalmente lasciano ai giocatori piena libertà di gestire i propri diritti d’immagine, con la sola eccezione del Napoli. Come raccontava nel 2018 l’Ultimo Uomo, De Laurentiis vuole il 100% di questi diritti in affidamento al club, una richiesta che in passato ha già fatto saltare diverse trattative, e ne ha complicate altre. Nel caso del Napoli, però, la ragione sembra essere legata più al marketing che alla volontà di evadere il fisco. Ai tempi in cui giocava alla Juventus, Ronaldo aveva provato a far risultare i proventi dei suoi diritti d’immagine come prodotti all’estero, e quindi sottoposti a una tassazione inferiore, ma nel 2023 la Corte di giustizia tributaria del Piemonte aveva respinto la sua istanza.
La questione resta comunque molto controversa, perché se è vero che la Spagna rappresenta il caso limite, simili soluzioni vengono adottate - anche se in maniera meno marcata - anche in altri paesi, come Regno Unito e Germania. L’ambito dei diritti d’immagine, da un punto di vista fiscale, rimane un ginepraio, e va segnalato come fino a questo momento gli unici ad averci rimesso sono stati calciatori e allenatori. Ma come detto da Ancelotti fu il Real Madrid a suggerirgli di agire in quel modo: quand’è, allora, che anche i club e i loro dirigenti finiranno seriamente sotto indagine per queste operazioni?