Il filmato dura poco più di un minuto. Jannik Sinner è a Melbourne, in una di quelle navette comode con le bottiglie d’acqua in dotazione, presumibilmente per un trasferimento tra un impegno e l’altro durante le fasi preliminari degli Australian Open. La navetta: un non luogo che collega tra loro altri non luoghi. Jannik, da solo sul divanetto posteriore di una Kia EV9, parla del suo dolore più grande. Lui ci è abituato, alla solitudine. È così se vuoi stare in campo ed è così, nell’accezione più positiva del termine, quando sei il numero uno al mondo.
Jannik Sinner è amato da un Paese intero perché simbolo di un’Italia meravigliosa, giovane, eccellente, fresco che piace alle nonne e grande che innamora gli appassionati, uno capace di riunire generazioni davanti a uno schermo e di vendere abbonamenti alla pay tv. Jannik guadagna milioni di euro l’anno e fa le pubblicità di Fastweb, indossa Rolex, veste Gucci, beve Lavazza, guida Alfa Romeo, porta interi patrimoni a Montecarlo e parla poco, sempre flemmatico, concentrato su allenamenti che sembrano non finire mai e che restituiscono all’esterno la misura del sacrificio e dell’umiltà: sono il migliore e quindi mi alleno più degli altri. Un paradosso che gli sportivi conoscono bene. E poi il fango: la storia del doping, del Clostebol, il gossip con Anna Kalinskaya, la famiglia, tutto mescolato in una pioggia di articoli per chi è pro e per chi è contro, tutto in vendita per restituire allo spettatore un Jannik Sinner polarizzante come la politica interna. Un incessante temporale mediatico. Eppure è lì, in una navetta di quelle con l’aria climatizzata anche dietro, da solo, che ci regala un pezzo di sé: “Al momento quest’anno è stato davvero diverso per me a causa della perdita di mia zia l’anno scorso”, racconta Sinner a una voce fuori campo.
“Prima era… diverso. Lei era… Potevo parlarle di tutto, anche quando era malata lei ha sempre cercato di impegnarsi per farmi sentire amato, era una persona veramente adorabile”. La voce gli chiede se sente di portarsi dentro il suo ricordo: “Sì. Ora sono qui e ho una mentalità diversa, perché siamo convinti che essere giocatori di tennis sia importante, ma alla fine siamo non siamo niente in questo mondo. Cercare di aiutare le persone intorno a noi, le persone che amiamo col cuore è molto più importante di vincere tornei. Anche se per vincere i tornei lavoriamo per anni”.
Il messaggio qui non è sul grande sportivo che è un uomo ancora più grande perché ha capito il valore della vita. O meglio, non è solo questo. Il confine tra la più becera retorica e la grandezza di un fuoriclasse è spesso sottile e totalmente arbitraria, eppure la sensazione è che in questo caso sia proprio di grandezza che stiamo parlano. Il punto, ad ogni modo, è un altro: Jannik si apre lì, in un non luogo come il retro di un’auto, assolutamente anestetizzato da una vita fatta di trasferte, allenamenti, partite, interviste, recuperi, servizi fotografici, spot, conferenze, incontri. Jannik si apre davvero col suo interlocutore e lo fa in un non luogo perché probabilmente vive in un mondo in cui il sedile di un’auto, lo studio di Fazio con i pesciolini nella scrivania o il palco dell’Ariston sono la stessa cosa. Luoghi vuoti, senza valore e senza anima. È così che percepisci la grandezza e la vertigine di chi è arrivato lassù: vedi un ragazzo che ha imparato a bastare a sé stesso, ad accettare la vita vissuta da un’astronave, veloce e distante, uno che s’accorge di vivere sempre lontano da quello di cui gli importa davvero. Di cercare, in tutto questo, solo l’affetto della sua gente.