Che la Formula 1 sia spietata, già lo sapevamo. Se sei un pilota della famiglia Red Bull, però, quella spietatezza si traduce in un lasciapassare per gli inferi, di quelli che garantiscono l’accesso ma non il ritorno. E poi se sei un rookie, allora, il peso dei due tori alla carica si fa ancora più opprimente. Basti ricordare le nefaste sorti di coloro che, uno dopo l’altro, hanno avuto la fortuna (o sfortuna) di accarezzare con mano quel sedile. Quello che di certo ha ben poco, perché lassù tra i grandi c’è il Dottor Helmut Marko. Ovvio, nulla di certo a meno che non porti il nome di Max Verstappen.

Daniil Kvyat, Pierre Gasly, Alexander Albon, Nick De Vries, Daniel Ricciardo. Se vogliamo, lo stesso Yuki Tsunoda a cui, dopo ben quattro stagioni nel team satellite, ancora non è stata data l’opportunità di fare il salto di qualità. Spettatore inerme di Liam Lawson, preferito a lui e ora al fianco del quattro volte campione del mondo olandese. Compagno dell’ennesimo prodotto Red Bull: Isack Hadjar. Una scalata fino in Formula 2, vicecampione del mondo 2024, risultato che gli ha finalmente regalato la classe regina. Ma a quale costo? L’apice dell’automobilismo è una macchina che va veloce, e non solo in pista. Il tempo scorre rapido anche nel paddock, rincorre insaziabile chi fatica a adattarsi, quei ragazzini che toccano il cielo con un dito ma che, allo stesso tempo, tengono i piedi ben saldi a terra, perché il futuro è imprevedibile. Rincorre quelli che ragazzini non lo sono più tanto e che fanno i conti con la gloria di un passato ormai sbiadito, di quelli che mai si sono tradotti nella coppa più importante di tutte. Non fa sconti il tempo. Quello del cronometro, quello del trascorrere dei giorni. Non scherza nemmeno quello atmosferico, in Formula 1.
Al via del Gran Premio di Australia, al turbinio di emozioni dell’inizio di una nuova alba, si aggiunge un punto di domanda ingombrante: le condizioni meteo. Ed è proprio Hadjar a pagarne lo scotto. Il debutto in gara al volante di una vettura apparentemente promettente, si trasforma in un incubo. Durante il giro di formazione, su asfalto bagnato, il pilota numero 6 cerca di scaldare le gomme quanto più possibile, ma esagera e va a muro. Finisce prima ancora di aver iniziato e lascia l’abitacolo, per poi fermarsi un attimo e accogliere il sopraggiungere delle lacrime. E non fa niente se poi anche piloti del calibro di Carlos Sainz, appena al secondo giro, e Fernando Alonso, a gara inoltrata, finiscono in barriera. Nulla può alleviare quello stato d’animo che solo un esordiente può provare nel dover rimandare il sogno di una vita. Nulla può perché, alla fine, il primo avversario di te stesso sei proprio tu, tu che ti giochi il sedile, tu che nonostante tutto speri di avere quel tempo per rifarti.
Poi però in Formula 1 succedono delle cose strane, che strane in realtà lo sono solo lì, tra il lusso e la competizione, altrimenti momenti infrangibili in una normale quotidianità. Succede che Isack, casco ancora indosso ma visiera alzata per strofinarsi gli occhi, viene intercettato lungo il percorso da Anthony Hamilton. Succede che un ragazzino, che non ha mai nascosto la sua ammirazione per Lewis, si vede abbracciare e consolare da suo padre. Sotto il cielo plumbeo di Melbourne, è bene dire che forse, in quel frangente, il tempo si sia davvero fermato. Per lasciarci contemplare un fermo immagine tanto intimo quanto collettivo, perché tutti –chi più, chi meno– si sono sentiti toccati dalla reazione del classe 2004. E lo stesso vale per il gesto umano di papà Hamilton. Perché è vero, spesso ci dimentichiamo che abbiamo a che fare con esseri umani, basti pensare alla caccia alle streghe che ha subito Lando Norris la scorsa stagione, indicato come inadatto, privo della stoffa del campione, come se la fragilità debba camuffarsi dietro a sguardi vuoti, purché non si tracci una linea sul tuo nome. Basti pensare allo stesso Helmut Marko, discutibile opinionista che, ancora una volta, non nasconde la sua indifferenza e definisce il pianto del proprio pilota “imbarazzante”.
Ma noi ci ricordiamo Abu Dhabi 2021, quell’abbraccio padre-figlio che è valso più di mille parole. Ecco, sembra che le lancette siano andate a ritroso a Melbourne, solo che non si è trattato di famiglia ma della più pura empatia. “Mantieni la testa alta” ha detto Hamilton senior al giovane franco-algerino, una frase dalla semplicità disarmante ma che colpisce nel segno in una realtà che a tratti sembra fittizia e inospitale ma che, in fin dei conti, è popolata e resa viva da cuori e desideri. E allora sono istanti come questi che mantengono viva quella flebile umanità, che ci rammentano che sotto ad ogni casco c’è un ragazzo che lotta e che sogna, che dietro ogni angolo c’è un genitore che consola, nel nome di una solidarietà che forse sa di vittoria più di qualsiasi podio.
