C’è Lorenzo Musetti, numero 9 del mondo, e poi c’è Lorenzo papà, che prova a insegnare a camminare al piccolo Leo tra un allenamento e un’intervista, magari durante una cena in centro, tra le meraviglie di una Roma che oggi lo accoglie da protagonista. “Stiamo nella fase in cui Leo vuole iniziare a camminare”, racconta a La Stampa. “Anche ieri al ristorante abbiamo provato ad aiutarlo. I momenti in comune non sono tantissimi, ma passare la sera in famiglia mi dà molta tranquillità”. E poi, aggiunge con dolcezza, “anche se non se lo ricorderà, il centro di Roma è un museo a cielo aperto”. Ma stavolta Musetti è qui per lasciare un segno. Non solo per mostrare il suo tennis, da sempre elegante e affilato, ma per vincere. Lo dice chiaramente: “Sulla terra riesco a utilizzare al meglio il mio bagaglio tecnico, ma l’obiettivo è vincere il torneo su qualunque superficie si giochi, non solo sul rosso. Non è mancanza di rispetto verso gli altri: posso benissimo perdere al primo turno. Dopo i risultati di Montecarlo e Madrid, però, sono a Roma per tenere vivo il momento”.

Un momento che ha il peso di due risultati pesanti: finale a Montecarlo e semifinale a Madrid. Risultati che certificano la svolta. “La top ten era un obiettivo dichiarato, ma non cambia molto”, ammette. “Certo, sicurezza e fiducia nel mio gioco sono aumentate. Raggiungere una finale 1000 tra alti e bassi a Montecarlo e la semifinale a Madrid è stata la conferma di una nuova attitudine mentale”. La trasformazione è iniziata dal basso, da due Challenger scelti con coraggio. “È questione di continuità e consistenza. Dallo scorso anno ho cambiato passo: prima avevo dei picchi in alto, ma anche in basso. Dopo un inizio di 2024 davvero brutto mi sono sporcato le mani in due Challenger, a Cagliari e Torino, dove pur non giocando al meglio sono arrivato in finale”. È lì che ha “ritrovato sé stesso”. E oggi, quel Musetti emotivo, spesso troppo autocritico, sembra più lontano. Ma durerà davvero la svolta zen del focoso Lorenzo? “Io ho sempre teso a sminuirmi, a lamentarmi in campo. Togliere quel lato mi ha aiutato. Non vorrei mai essere presuntuoso, ma essere consapevoli di ciò che si è, e si vale, sicuramente aiuta”.

Una consapevolezza che si nota anche nei colpi, non solo nei pensieri. A partire dal servizio. “Avevo un gesto che mi faceva ‘perdere’ il lancio di palla, così siamo intervenuti sulla tecnica. Ora con il movimento parto da sopra e questo mi semplifica la vita, anche se ho dovuto automatizzarlo. All’inizio non vedevo tanto i frutti, ma a Montecarlo e Madrid mi sono salvato spesso con servizio e dritto, che non è proprio il mio stile”. Il tabellone di Roma lo tiene nella parte bassa. Sinner è in quella alta. E se la suggestione finale tutta italiana si fa largo nei pensieri dei tifosi, Musetti la accoglie ma con misura. “Preferisco pensare a una partita alla volta, perché mi fa stare più concentrato, ma anch’io vedo che Jannik è nella parte alta e io in quella bassa. Mi auguro che ci sia una finale tutta azzurra: fra noi due o qualsiasi altro degli italiani. La cosa che mi preme di più però è di poter giocare. A Roma tante volte non ho potuto esserci o comunque dare il meglio per problemi fisici, stavolta spero di farcela”. Il ritorno di Sinner è un altro stimolo: “È bello ritrovarlo, rappresenta una motivazione in più. È il giocatore da battere, anche dopo tre mesi di stop. Credo che lo troveremo pronto già da sabato. Questi mesi li ha vissuti più da ragazzo che da tennista e magari gli ha fatto bene. Potremmo persino trovarlo migliorato, anche se è molto difficile…”.

E se il tennis moderno va verso la potenza cieca, Musetti resta un bastione del gioco d’arte. “Spero che ci siano in futuro altri giocatori in grado di sorprendere: sarebbe davvero una... sorpresa. Il tennis moderno purtroppo sta andando in una direzione diversa, ma io e Dimitrov qui ci siamo allenati ripetendoci la necessità di tenere ‘vivo’ il rovescio a una mano. Siamo entrambi amanti del tennis old style, credo ce ne siano tanti come noi”. Poi c’è la complicità storica con Simone Tartarini, suo coach da sempre. “Me lo sono chiesto anch’io a nove anni, quando sono andato da Simone. Ero io, carrarino, a invadere il loro territorio, e mi prendevano di mira. Ma ho giocato tanto in Liguria, sono ancora tesserato per il Park Genova, e anche se come toscano magari è brutto da dire, ormai ho inserito il termine belìn nella mia dialettica...”. Oggi Musetti non si limita più a strappare applausi. Si prende le partite. Le vittorie. E forse, anche un po’ di quel rispetto che per troppo tempo si è negato da solo.