Ogni volta che un atleta italiano di Mma compie un’impresa, la sensazione è la stessa: frustrazione. Sono passati 30 anni esatti dalla nascita di Ufc 14 da quando Sky iniziò per la prima volta a trasmettere “gli incontri nella gabbia”, un decennio circa da quando, con il boom di Ronda Rousey prima e Conor McGregor poi, le Mma diventarono uno sport mainstream in ogni paese occidentale. Da noi, invece, continua a regnare la logica del cono d’ombra: siccome si tratta di uno sport sconosciuto alla generazione di cinquantenni che controlla placidamente giornaloni e palinsesti tv, in Italia di Mma si parla poco e quasi sempre a sproposito – per esempio, all’indomani della tragedia che vide coinvolti i fratelli Bianchi – anche quando un nostro connazionale, Dario Bellandi da Livorno, compie un’impresa sportiva di quelle che resteranno, andando a vincere, a Newcastle, il titolo pesi medi del Cage Warrior, la promotion più prestigiosa d’Europa. Un incontro spettacolare quello di Bellandi (7-1), che in cinque round – quattro dei quali dominati – batte l’inglese Mick Stanton, non esattamente l’ultimo arrivato, ma un fighter estremamente solido, forte fisicamente e dallo stile di lotta poco ortodosso, che veniva da tre vittorie consecutive e poteva contare sul rumorosissimo sostegno del pubblico di casa. Al telefono, trentasei ore dopo il match, la voce di Bellandi è bassa, quasi roca. “Hai festeggiato?”, gli domando. “See, magari. No, non ho ancora avuto tempo. Questa è solo stanchezza”.
Come ci si sente ad aver compiuto un’impresa del genere in un Paese in cui i media sportivi concedono pochissimo spazio alle Mma?
È normale. Basta vedere l’atmosfera che c’era a Newcastle: pazzesca. In Paesi come l’Inghilterra c’è molta più attenzione verso lo sport; dunque, i media se ne occupano di più. Da noi si fa più fatica per un discorso culturale. Il modo migliore per ritagliarci un nostro spazio è con i risultati, le vittorie ma anche i match spettacolari, e in questo senso credo di aver fatto il mio. Penso di aver fatto un bellissimo incontro, non solo per il risultato ma anche per l’azione mostrata in gabbia, cinque round pieni di colpi, lotta, tecnica, che possono essere appetibili anche per chi non conosce lo sport.
[Il match è stato, effettivamente, uno dei migliori tra quelli combattuti recentemente dagli atleti italiani all’estero. Stanton, tra l’altro, è portatore di uno stile di lotta che raramente si vede negli incontri di Mma, basato su dei movimenti che ricordano il famoso “berimbolo”, una mossa di brazilian jiu jitsu che consiste nel ruotare il corpo poggiando a terra soltanto il collo e la parte superiore della schiena. Grazie a inversioni di questo tipo, è riuscito a rendersi pericoloso con l’utilizzo della kimura, una leva al braccio che, guardando il match in tv, in almeno un’occasione sembrava davvero “chiusa”.]
Come hai fatto a uscire dalla kimura? È stata tecnica o forza di volontà?
Diciamo che stanotte non ho dormito dal male alla spalla; quindi, sicuramente c’entra la forza di volontà. Però è stata anche una questione tecnica: sono riuscito sempre a controllarlo in modo da impedirgli di trovare lo spazio per completare l’arco di trazione. Lui continuava a insistere, ma col passare dei round si è stancato. Comunque ci eravamo preparati, sapevamo che aveva questo tipo di movimenti. Certo, rivedendo il match, non avrei dovuto trovarmi più volte nella stessa situazione di pericolo. Ci lavorerò su.
Prima del match eri più agitato del solito? Che rapporto hai con la paura?
Di solito, prima dei match, sono tranquillo. Si entra in gabbia per picchiarsi, non è una novità. Questa volta però ero più agitato del solito. Dormire ho dormito, ma qualche ora prima del match ha cominciato a salirmi un po’ di ansia. Poi ho fatto una passeggiata, mi sono concentrato e da lì non ho avuto problemi.
[A dimostrazione che simili traguardi non si raggiungono per caso, Bellandi è un atleta del Rendoki Dojo, ovvero di Massimo Rizzoli, vera e propria leggenda degli sport da combattimento italiani. Carattere sanguigno, pioniere di K-1, allenatore dal 1982 ed ex fighter di Mma, ha formato ragazzi di cinque generazioni diverse, raccogliendo come coach, almeno fino a oggi, meno di quanto avrebbe meritato. La vittoria di Bellandi è, anche, la vittoria di Rizzoli, della sua coerenza, della sua costanza.]
Che tipo è Rizzoli e che rapporto hai con lui?
Massimo è uno vero. Per questo, in passato, ha avuto scontri con diverse persone: perché è un uomo di vecchi valori, di vecchie tradizioni, che non fa compromessi, che non è mai cambiato. Con lui ho un rapporto unico. È un coach, un fratello, un padre, un amico.
Si dice sempre che per crescere tecnicamente bisogna andare ad allenarsi all’estero. Sei d’accordo?
Non sono contrario a prescindere a un’esperienza all’estero. Credo possa aiutare, per esempio per quanto riguarda lo sparring, perché ti dà la possibilità di confrontarti con molti fighter del tuo stesso peso. Non sono però assolutamente d’accordo quando si dice che andare all’estero, e in particolare negli Usa, sia l’unico modo per migliorare tecnicamente. E credo anche che la tranquillità mentale sia molto importante per un atleta: il vantaggio di potermi allenare vicino a casa è molto importante.
Sei consapevole che adesso inizieranno a chiederti solo una cosa: quando entri in Ufc? Quali sono i tuoi piani per il futuro?
Con questa cintura alla vita tutto sembra più facile. Ovviamente voglio entrare in Ufc, ma voglio entrare per rimanerci. Adesso c’è da difendere la cintura e da migliorare e crescere ancora.
È un momento complesso per gli sport da combattimento. Match tra influencer, incontri anche di altissimo livelli tra competitor che sembrano più bravi a fare i personaggi che I fighter. Ora che sei campione anche tu diventerai personaggio?
Non credo proprio. Il mio personaggio sono io nella vita di tutti i giorni. Per me parlano e parleranno sempre i risultati.