Si inizia andando indietro nel tempo di mezzo secolo. Incontriamo Andrea che gioca a pallone scalzo per non rovinare le scarpe buone, ha sei fratelli e una madre che subisce le continue violenze di un marito instabile e feroce. La vita di Andrea Carnevale è tra le pagine di un libro che sembra un film, non soltanto perché scritto col regista Giuseppe Sansonna. Il destino di un bomber (66thand2nd) ci fa conoscere Carnevale da vicino, dall’infanzia passata nel basso Lazio in un sud Italia ancora rurale, fino ai trionfi col Napoli. In mezzo una coppa UEFA, un altro scudetto e pure qualche inciampo.
Lo raggiungo telefonicamente per parlare della sua storia. Partiamo del femminicidio di sua madre Filomena, uccisa da suo padre quando lui era poco più di un bambino. Da qui parleremo di molte altre cose: di trionfi, di Maradona, del fallimento di Italia Novanta. Eppure è con la morte della madre che la sua vita cambia e prende una precisa direzione. Per questo siamo partiti da lì.

In casa è un tema ricorrente?
"Per niente. Siamo sette fratelli e ci siamo tenuti tutto dentro per cinquant’anni, parlandone pochissimo anche tra di noi. Ultimamente stiamo capendo che discuterne può diventare anche una sorta di terapia collettiva".
All’epoca dei fatti avevi 14 anni. Come va avanti la vita di un adolescente dopo un simile accadimento?
"Mettendo il dolore da parte, chiudendolo un un angolo della propria anima e grazie allo sport. Se non ci fosse stato il pallone, non so che uomo sarei - e dove sarei - oggi".
E che uomo era invece tuo padre?
"Un uomo duro, capace di spaventarci, un uomo malato con delle crisi che sfociavano nella violenza contro mia madre. Noi volevamo fare qualcosa, ma lei ci diceva di lasciar stare, che rischiavamo di metterci in pericolo anche noi".
Tu però andasti dai carabinieri, giusto?
"Mi dissero che servivano delle prove e che potevano intervenire solo se vedevano scorrere il sangue".
Una dinamica abbastanza nota. Non è cambiato molto in cinquant'anni. Poi tuo padre un giorno va al fiume dove tua madre sta lavando i panni. Ha in mano un’accetta…
"Quando mi dissero cosa era successo presi un barattolo e corsi al fiume. Lo riempii col sangue e i resti di mia madre. Lo portai ai carabinieri e glielo lasciai sul tavolo. Ecco il sangue che stavate cercando, dissi".
Quante volte ci pensi?
"Tantissime. Penso che è mezzo secolo che non dico più la parola “mamma”. Mi manca, vorrei che vedesse la casa che mi sono costruito nel nostro paese a Monte San Biagio. L’ho dedicata a lei: Villa Filomena. Vorrei che vedesse che in quella casa c’è una lavatrice, lei che perse la vita al fiume, mentre lavava i panni…"
Speri che questo libro possa aiutare a sensibilizzare sul tema della violenza sulle donne?
"Me lo auguro. Noi uomini dobbiamo imparare ad accettare i rifiuti o i fallimenti di coppia. Bisogna lavorare tanto per informare e sensibilizzare, spero che questo libro possa fare qualcosa".

Parliamo un po’ di calcio, a partirre da quel 10 maggio 1987. Pareggiate 1-1 con la Fiorentina - con un tuo gol - e vincete il primo scudetto della storia del Napoli. Che ricordi hai di quel giorno?
"Forse il giorno più bello della mia vita. Volevo lasciare il segno con un mio gol… e così andò. In quel momento mi sono sentito consacrato, forse lo ero già, ma ricordo di essermi sentito per la prima volta, per davvero, un calciatore".
Uno scudetto a Napoli, anzi il primo scudetto a Napoli...
"Ricordo una città abbottonata, scaramantica e silenziosa e poi l'esplosione".
Come pensi si stiano vivendo oggi queste giornate di attesa a Napoli?
"Come quarant’anni fa: abbottonati, scaramantici, in attesa…"
Quello scudetto è stato il momento più alto della tua carriera?
"Vorrei vivere dieci vite, per rivincere dieci volte il primo scudetto del Napoli".
Facciamo un salto a due anni dopo. Finale di Coppa Uefa, sei titolare in entrambe le partite e alla fine la coppa l’alzate voi.
"Senza nulla togliere all’Europa League ti posso assicurare che la Coppa Uefa era decisamente più complicata. Pensa solo che ci andavano le seconde classificate, che oggi vanno regolarmente in Champions League. Ai quarti trovammo la Juve e al ritorno ribaltammo il 2-0 dell’andata, poi in semifinale il Bayern Monaco e in finale lo Stoccarda".
Che ricordi di quella vittoria?
"A inizio stagione eravamo talmente convinti dei nostri mezzi che rinunciammo ai premi partita e puntammo tutto su un più cospicuo premio per la vittoria finale. Avevamo ragione noi".

È impossibile scindere quel Napoli dalla figura di Diego Armando Maradona… Chi era lui per te?
"Più di un amico, un fratello".
Ti va di regalarci un aneddoto su Diego dentro e fuori dal Campo?
"Era un ragazzo generoso, buono altruista, vicino al popolo. Trovava tempo per dedicarsi a tutti, soprattutto ai bambini. Addirittura ai semafori accostava la macchina per fermarsi a parlare con la gente".
Non proprio come il calcio di oggi, diciamo…
"Oggi c’è un distacco totale, lo dico da dirigente (all’Udinese ndr). Io uno buono come Diego non l’ho mai più conosciuto. Poi ha avuto le sue pecche, le sue fragilità. In un’intervista ricordo che disse: se non avessi incontrato la cocaina. Che giocatore sarei stato? Ci penso spesso a questa sua frase…"
C’è un aneddoto al Carnevale di Rio che racconti nel libro…
"Forse era nel suo periodo più basso. Lo incontrai in Brasile e mi volle nel suo palchetto personale per ammirare la sfilata. A notte fonda era in condizioni atroci, in balìa dei fotografi. Mi avvicinai e gli dissi che avevo combinato un incontro con due modelle che ci aspettavano in albergo. Lo toccai su un argomento sensibile, con quella scusa lo portai via, in camera a dormire".
E un ricordo calcistico?
"È stato semplicemente il più grande. Non me ne vogliano Messi e i Ronaldo. Faceva delle cose inspiegabili che ti guardavi con gli altri e dicevi: ma come cazzo ha fatto?"
Ricordi l’ultima volta che lo hai visto?
"Quando gli diedero la cittadinanza onoraria a Napoli. Era in grande forma. Poi, poco dopo, la morte inaspettata".

Nel libro, in maniera più o meno velata, si fa riferimento al tuo passato da Dongiovanni. Com’era essere un calciatore forte, famoso e bello a fine anni 80?
"Quando attraversi il grande calcio e diventi una star è tutto facile e le situazioni si creano. Non mi è mai piaciuto fare gossip e finire sui giornali, ma qualche donna l’ho avuta e con tutte c’è sempre stato un grande e reciproco rispetto".
Quest'anno saranno 35 anni da Italia 90. Quelle per te non sono state delle Notti magiche...
"Direi proprio di no. Sai cosa ti vorrei dire di primo acchito? Che vorrei rigiocare la prima partita".
Italia – Austria. Perché?
"Perchè mi ero preparato tanto, era il debutto mondiale nel mio nuovo stadio (nell’estate del 1990 Carnevale passò dal Napoli alla Roma, ndr), ma sbagliai due gol facili. Poi arrivò il cambio con Schillaci e il resto è storia".
La partita successiva riparti titolare, ma vieni ancora sostituito e…
"…mando a quel Paese il CT Vicini e il mio mondiale finisce lì. Mi scuserò, ma passerò il resto delle mondiale in tribuna".
Pochi mesi dopo il mondiale prendi una medicina dimagrante il Lipopill che contiene fentermina, una sostanza proibita. Fu il primo clamoroso caso di doping nel calcio italiano, vieni squalificato per un anno. Ripensadoci oggi fu una pena decisamente esagerata…
"Assolutamente sì, perché nel sangue avevo appena lo 0,001 di sostanza proibita. Ci fu anche un’inchiesta della giustizia ordinaria, mi perquisirono casa cercando chissà cosa, fui assolto. Sportivamente però mi ammazzarono con quell’anno di stop".
Che ricordi di quel periodo?
"Che chi stava indagando sul mio caso non volle ascoltare le mie ragioni. Era come se si fosse già fatto un’idea e io non potevo dire o fare nulla per provare a cambiare il corso delle cose".
Cosa pensi del caso Sinner?
"Aveva nel sangue una quantità di sostanza proibita simile alla mia. Gli sono vicino. È diventato il più forte del mondo, aveva tutti gli occhi puntati addosso e ha dovuto pagare per una colpa non sua. Se si fosse dopato davvero con tutte quelle vittorie e con tutti i controlli che ha fatto sarebbe uscito ben altro, non credi?"
D'accordo, chiudiamo. Il gol più bello della tua carriera?
"Devo ripetermi e tornare a quel 10 maggio del 1987. Quel giorno realizzai di essere un calciatore, di aver fatto un gol scudetto, di aver vinto il primo scudetto della storia del Napoli. Quel giorno pensai al me bambino che sognava di giocare in Serie A e capii che lì stava iniziando la mia storia. La mia vera storia".

