Anna Kalinskaya si racconta su Vogue tra ambizioni, disciplina e amore per il tennis, ma la realtà sul campo è un’altra: il suo inizio di stagione è un incubo. Dopo i ritiri ad Adelaide e Singapore, inframezzati dal forfait agli Australian Open, la russa esce ai trentaduesimi di finale del Wta di Doha, sconfitta in tre set dalla numero 98 del mondo, Cristina Bucsa. Un match di tre ore, iniziato con una vittoria al tie-break nel primo set, poi il crollo: 7-5, 6-4 per la spagnola. Un risultato che pesa come un macigno su una stagione che doveva consacrarla tra le migliori. La Kalinskaya aveva fissato obiettivi ambiziosi: entrare in top 10, magari puntare anche alle prime cinque posizioni. Tecnicamente, il talento c’è. Ma il problema è un altro: fisico e testa, almeno per ora, non rispondono. Attualmente è ancora numero 18 al mondo, ma se continua così, la classifica rischia di sgretolarsi in fretta. E i social, come sempre, non perdonano. Tra i commenti più velenosi, c’è chi le dice di “tornarsene a casa”, chi ironizza sul livello dell’avversaria. Eppure, lontano dai campi, la narrazione è tutta un’altra.



In un’intervista a Vogue, si mostra sicura di sé e della sua strada: “Sono semplicemente molto appassionata. Giocare di fronte a una folla, l’atmosfera… è una sensazione speciale”, racconta. Ripercorre i suoi inizi nel tennis, ispirata dalla cugina, e il momento in cui ha deciso di diventare professionista: “A 18-19 anni ho capito che volevo dare il 100% a questo sport". Parla anche di successo: “Ho avuto modo di osservare atleti di altri sport, vedere quanto lavorano duramente ogni giorno. È stato motivante”. E quando le chiedono quale consiglio darebbe a un’aspirante tennista, risponde che “non paragonarti agli altri. Lavora su te stessa, il resto verrà”. A chi le chiede cosa la spinga in campo, la risposta è secca: "Odio perdere. Per me giocare significa una cosa sola: vincere". E l’aspetto più difficile della vita da professionista? Nessun accenno alla pressione o agli infortuni, ma un altro aspetto che sembra pesare molto su di lei: "Essere lontana da casa, viaggiare continuamente e il jet lag. È la parte più impegnativa per me". Insomma, Kalinskaya si racconta in modo trasparente. O quasi. Perché in un’intervista così lunga, dettagliata e personale, di Jannik Sinner, con cui ha vissuto (o vive ancora?) una storia d’amore non c’è traccia. Nessun accenno, nessuna riflessione, nemmeno mezza parola. Una scelta voluta o un argomento ancora troppo ingombrante?
