“Ormai sono quasi più italiano che argentino. E poi in Italia non mi sono mai sentito uno straniero, neppure quando ero qui da poco”. Martin Castrogiovanni è il pilone che ha fatto sognare la nazionale italiana di rugby. Un uomo di mondo – si sarebbe detto un tempo –, non tanto per aver fatto “tre anni di militare a Cuneo” (quelli Martin se li è risparmiati), ma perché grazie al suo talento – adesso però sarebbe il caso di girarlo al plurale, quel “talento” – il mondo lo ha davvero frequentato. Raramente è stato un turista, molto più spesso un protagonista. Da Paranà fino all’Italia come destinazione definitiva, passando per l’Inghilterra (Leicester) e la Francia (Tolone). Passando per una serie di vittorie e soddisfazioni sportive non indifferenti, per la tv della prima serata, per la solidarietà e, ora più che mai, per la Castro Academy. Un camp, quello di Piancavallo (Pordenone), dove il rugby non è solo un fine ma anche un mezzo. Dallo scorso anno – ci informa il sito – Martin ha introdotto nel programma giornaliero di allenamento della Academy la pratica della mindfulness. Obiettivo, lo sviluppo di una consapevolezza focalizzata sul “qui e ora” che permetta ai giovani atleti di creare uno stato mentale consapevole, riflessivo e non giudicante, e di non deviare l’attenzione su quelle distrazioni esterne da cui siamo continuamente bersagliati.
Qual è il senso ultimo della Castro Academy?
Quando parlo della Academy divento quasi romantico. È un’esperienza che è cresciuta nel tempo, iniziata quando giocavo l’ultimo Mondiale. Ciò che cerchiamo di comunicare a tanti ragazzi fra i 7 e i 17 anni è la cultura dell’incontro e della socializzazione. Saper incontrare persone che non conosci e costruire con loro qualcosa di concreto e importante. Non si tratta solo di condividere le sessioni di allenamento, ma di vivere assieme in un ambiente ampio e inclusivo. Ogni settimana, per dire, organizziamo una partita in cui noi istruttori ci mettiamo su una sedia a rotelle e sfidiamo la Nazionale o la squadra della Wheelchair Roma Rugby, una delle società più importanti a fare attività in carrozzina.
Le diversità, o meglio il concetto di “mixed ability”. Un punto fermo della Academy.
Sì. L’idea è quella di mescolare i cosiddetti “normodotati” con ragazzi che hanno qualche forma di disabilità. Un ragazzo autistico ad alto funzionamento, ad esempio, viene accompagnato al campo da un tutor – un altro ragazzo che gioca già a rugby – che gli insegna le regole, i rudimenti, dello sport. Anche qui il tentativo è quello di favorire un incontro fra realtà diverse, abituare i ragazzi al contatto con la disabilità mentale, a una socialità più complessa in cui vengano meno quelle barriere che in genere tendono a separare, e non unire, le persone.
La naturalezza con cui parli di progetti che comunque, al centro, hanno il rugby mi fa credere che non sia stato semplice, dopo il ritiro nel 2016, rinunciare al sudore, alle corse e alle botte. Recentemente hai anche iniziato una collaborazione con ISC (Italian Sport Consulting). Aiuterai i rugbisti affiliati a ISC a gestire la loro comunicazione, il marketing.
Per rendere meno dolorosa la mia vita senza uno sport condotto a livello professionistico ho cominciato ad allenare il cervello (ride, nda). Ho riconcepito il mio futuro pensando soprattutto ad adattarmi.
Hai preso dal rugby questo spirito quasi darwiniano?
Lo sport – e non lo dico io – è un insegnante prezioso. Il bravo giocatore non deve crollare appena gli cede il fisico. Perché il fisico, prima o poi, ti saluta. E in quel momento inizia una seconda vita, fatta di cervello, di pazienza, di strategia, non solo di prestanza atletica. Tutte cose che lo sport insegna. Perché anche se diventi un campione, raramente lo sport ti concede il lusso di vincere immediatamente.
Dopo il rugby è arrivata la tv – “Tú sí que vales” con Belèn Rodriguez. Tutti pensano che poteva senza dubbio andarti peggio, ma il mondo della tv resta, nell’immaginario popolare, un mondo duro.
Dal quale però mi sono sempre sentito accolto. Mi ritengo una persona fortunata. Perché ho le risorse che servono per affrontare le sfide che mi attendono. Anche qui, il rugby insegna. Sempre.
Voi argentini di successo qui in Italia apparite spesso come figure solide, affidabili. Mettendo momentaneamente da parte l’estro irregolare di un Diego Armando Maradona, penso a Javier Zanetti, un autentico riferimento per ogni nerazzurro. Allo stesso Lautaro, che non ha mai mollato anche quando non segnava più.
Tra poco farò il mio 23esimo anno in Italia. Ormai ho vissuto più qui che in Argentina. Quando avevo solo 19 anni l’Italia mi ha accolto come un figlio e anche questa è una fortuna. Io dall’Argentina mi porto dietro l’umiltà. È un valore in via di estinzione, ma credetemi, l’umiltà fa spesso la differenza nella vita.
L’umiltà si impara o si nasce umili?
Ero umile anche quando mi facevo valere, sia sul campo che fuori. Sono sempre stato uno deciso, anche una “testa calda” volendo, ma alla fine ho sempre saputo chiedere scusa.
Straniero e italiano allo stesso tempo, potremmo dire. Politicamente ti senti rappresentato da qualcuno?
La politica non mi interessa molto. E soprattutto non credo che quello che posso dire io a riguardo abbia il potere di cambiare qualcosa. L’unica cosa “politica” che posso fare è esprimermi per ciò che so fare e spendermi per le generazioni future donando la mia esperienza ai più giovani. Noi ormai non possiamo cambiare più niente, sono i bambini di oggi che potranno avere la possibilità di cambiare le cose domani.