Vince tutto, sempre. Fa sembrare semplice anche l’impossibile. L’Imoco Volley Conegliano è diventata, nel giro di una decina d’anni, il Real Madrid della pallavolo femminile. Otto scudetti, sette Coppe Italia, otto Supercoppe, due Champions League e tre Mondiali per club. Una macchina perfetta, costruita da due imprenditori con la testa d’acciaio e il cuore sulle tribune del PalaVerde: Maurizio Maschio ed Enrico Polo. Ma anche i miracoli sportivi, a lungo andare, devono fare i conti con la realtà.
Se in campo l’Imoco fa la voce grossa, fuori resta un gigante fragile, che cammina su un equilibrio finanziario costantemente precario. “Non c’è mai stato un anno in cui abbiamo speso meno”, raccontano i presidenti. Il costo di una top player è sei volte quello di otto anni fa. E no, il bilancio non si chiude in pareggio mai. Il club è un esempio di gestione illuminata: investimenti su infrastrutture, staff tecnico, territorio, sponsor. Ma la sostenibilità economica? Un miraggio. A tenere tutto in piedi, per ora, sono proprio le loro aziende. Una forma di mecenatismo 4.0 che evita gli eccessi del calcio ma ha un limite: “Finché ci saremo, Imoco ci sarà. Ma i nostri figli, senza il supporto aziendale, difficilmente potranno continuare”, e questo, a Conegliano, lo sanno tutti.
Gli incassi dai biglietti? Limitati, ma volontariamente. Imoco ha scelto di riempire il palazzetto con prezzi popolari, puntando su visibilità e affetto più che sul match day revenue. L’arrivo di stelle come Gabi e Zhu Ting ha fatto crescere l’interesse internazionale del 35%, ma i diritti tv restano una beffa: 2 milioni da spartire tra 14 squadre. Una miseria. Si valuta lo sbarco in massa sui social per bypassare lo streaming a pagamento, ma Maschio resta con i piedi per terra: “Potrebbe essere la strada giusta? Vedremo”.
È qui che nasce la vera idea rivoluzionaria: una superlega europea. Un torneo con le migliori squadre del continente – sì, anche russe, polacche e greche – per creare un evento che attiri pubblico, sponsor e investitori, senza aumentare troppo i costi di trasferta. “I palazzetti si riempiono con le superstar”, dice Maschio. Se oggi il volley non può permettersi un qualche Mbappé, almeno può aspirare a una competizione che lo trasformi da sport di nicchia a spettacolo pop.
Polo, intanto, respinge l’idea che tutto si riduca a un conto in banca: “I nostri budget sono in linea con gli altri”. Quello che distingue Imoco è la visione imprenditoriale. L’approccio di una famiglia che ci crede davvero, con un progetto che vive di identità e territorio. Il basket e il calcio insegnano che l’internazionalizzazione è una sfida ardua, ma potrebbe essere la chiave per il volley: “Serve una famiglia che guidi l’iniziativa”, e non solo un Cda con le scadenze in testa e lo sport in fondo alla mail.
La vera domanda resta sospesa sopra il parquet del PalaVerde: può esistere un’Imoco sostenibile senza i suoi fondatori? “C’è chi parla di pareggio di bilancio, ma noi ci crediamo poco”, confessano. La pallavolo, per come è oggi, non si autosostiene, e finché si regge su imprenditori appassionati, si regge bene. Ma poi? Forse è il momento di cambiare il paradigma, di accettare che il volley – specie quello femminile, da sempre più penalizzato – ha bisogno di strategie nuove, di visione, di coraggio. Imoco è un faro, se si spegne però il buio potrebbe essere profondo.
