“E se…”. Il “what if” avvolge e stravolge ogni discussione sulla carriera di Derrick Rose, un “se” sospeso tra le stelle e la polvere. Il ragazzo di Chicago diventato per un breve, troppo breve periodo il giovane uomo che dominava i campi da basket Nba come un ballerino su un palcoscenico in fiamme. Oggi quel “se” si staglia più luminoso della sua stessa lunga quanto travagliata carriera. Perché in quel “se” risiede la malinconia di ciò che poteva essere, di un giocatore che avrebbe potuto contribuire a riscrivere la storia della pallacanestro, ma che invece è stato ridimensionato da una fragilità corporea che lo ha reso umano.
Derrick Rose si ritira all'età di 35 anni, dopo 16 stagioni, con una dignità che solo chi ha vissuto il dolore conosce. Non c’è rancore nelle sue parole, solo un’accettazione che sembra provenire da qualcuno che ha visto tutto, che ha vissuto il paradiso e l'inferno (sempre relativo, condito da milioni e milioni di dollari, si intende), e che ora si siede placido, osservando il tramonto dei suoi giorni agonistici nel basket. “Anche se potessi, non cambierei nulla della mia vita”, ha dichiarato Rose. A volergli credere, quel “what if” per lui non è un rimpianto, ma una chiave per schiudere la porta della vera gioia.
Per chi ha seguito il basket negli ultimi due decenni, Derrick Rose rappresenta molto più che le statistiche o i premi: è il simbolo di ciò che accade quando il destino si scontra con il talento in modo brutale, trasformando il prodigio in una battaglia continua tra il corpo e lo spirito. Preso come prima scelta assoluta dai Chicago Bulls nel draft del 2008, la sua storia sembrava già scritta: un ragazzo nato e cresciuto nelle strade di Chicago, pronto a diventare il volto della rinascita di una città che aveva perso il suo idolo, Michael Jordan, anni prima. E per un breve ma abbagliante momento, Rose è stato tutto ciò che Chicago sperava. Mvp (miglior giocatore del campionato) a soli 22 anni, il più giovane nella storia della Nba. Era inarrestabile, una forza della natura che sembrava destinata a dominare per anni.
Ma la tragedia sportiva e in buona parte anche umana si è presentata in una serata di playoff del 2012, quando un infortunio al legamento crociato anteriore ha spezzato non solo la sua carriera, ma il sogno collettivo di una città intera. È stato un momento che ha segnato una cesura nella narrazione del basket moderno. Dopo quel giorno, Derrick Rose non è stato più lo stesso. Non perché gli mancasse il cuore, ma perché il suo corpo non poteva più sostenere il peso delle sue potenzialità.
Da quel punto in poi, la sua carriera è stata un viaggio attraverso città e ruoli diversi, ma sempre secondari: New York, Cleveland, Minneapolis (con i Minnesota Timberwolves del suo allenatore ai tempi d’oro dei Bulls), Detroit e infine Memphis. Ogni squadra ha visto un frammento di ciò che era Derrick Rose, ma nessuna ha potuto ricostruire il mosaico originale. Il suo corpo aveva ceduto e ha continuato a cedere con altri problemi fisici, ma la sua determinazione no. Rose si è reinventato, ha lottato, ha accettato di essere un giocatore diverso, complementare anziché stellare. Ma quel “what if”, quel “se solo non si fosse infortunato”, è rimasto come un’ombra che lo ha seguito per tutto il suo cammino, e che aleggerà su ogni futura conversazione che lo riguarderà.