Sarebbe bello immaginare Nicola Pietrangeli sepolto con la Davis del 1976, come un Re con la propria corona. Lui che con quella coppa ha confessato di essersi messo a letto la notte in seguito al trionfo, e lui che per quella coppa ha lottato senza riserve nell'Italia politica e politicizzata degli anni di piombo. Pietrangeli lascia oggi a 92 anni quella vita che tanto ha azzannato, a cui in una recente intervista aveva dato un modesto sette e mezzo, ma che per noi sembra una storia da fotoromanzo. Nato a Tunisi, il padre un imprenditore italiano emigrato, la madre una profuga russa figlia di un colonnello zarista in fuga dalla rivoluzione bolscevica. Un'infanzia agiata, prima dello scoppio della guerra che gli porta via tutto. Dopo l'occupazione alleata la famiglia Pietrangeli finisce in un campo di prigionia, a Gammarth, proprio qui il giovane Nicola impara a giocare a tennis vincendo con il padre il torneo di doppio del campo. Il premio? Un pettine di fortuna ricavato da una bomba. Poi a tredici anni la fine dell'occupazione e il rocambolesco ritorno in Italia con la madre, passando per Marsiglia per poi raggiungere a Roma il padre già precedentemente espulso dal Nord Africa. “Al mio arrivo a Roma non spiccicavo una parola di italiano”, ma nella Capitale si fa strada rapidamente. È uno di quei ragazzi a cui sembra riuscire tutto bene, è bello, simpatico, raffinato, gioca bene a tennis, ma a suo dire fino ai 18 anni lo sport in cui era più bravo era il calcio. Ala rapida, buon piede, gioca nelle giovanili della Lazio, ma al momento della scelta fra i due sport predilige il tennis. “Nel calcio sei di proprietà di una squadra, nel tennis sei libero, e poi mi avrebbe permesso di viaggiare”, dichiarerà.
Uno spirito libero, gaudente, figlio degli anni della dolce vita. Grazie al tennis Pietrangeli è riuscito ad elevarsi a protagonista di quel jet-set che ha sempre sognato. Fra una cena con Frank Sinatra – in cui si finse il ricco proprietario di un importante marchio di pasta-, una lezione di tennis al principe Alberto e le notti con le donne più belle del mondo. Candida, nome d’arte di Catherine Jajensky, spogliarellista polacca del Crazy Horse; l'autogol con Edwige Fenech: “La porto a cena, al tavolo accanto c’è Luca di Montezemolo: glielo presento e mi do la zappa sui piedi da solo!”, poi i suoi grandi amori, Susanna madre dei suoi tre figli, la conduttrice televisiva Licia Colò, Lorenza e infine Paola, il suo ultimo amore. Ma ha sempre rifiutato i gradi del playboy, un'etichetta cucitagli addossa da altri. Gianni Clerici, l'unico insieme a lui ad essere stato inserito nella Hall of Fame di Newport ricorda nel suo “500 anni di tennis” delle notti brave di Pietrangeli prima delle partite, e lui stesso dichiarò: “Se mi fossi allenato di più avrei ottenuto risultati migliori ma mi sarei divertito meno”. Mentre Ken Rosewall, uno dei grandi di quegli anni disse: “Se finissimo su un’isola deserta senza possibilità di allenarci, lui ci batterebbe tutti”. Tanti “se” per un tennista dal talento indubbio che probabilmente ha raccolto meno di quanto avrebbe potuto. Principe della terra battuta, dove all'inizio degli anni Sessanta fu il migliore al mondo. Regolarista da fondo campo, a suo agio negli interminabili scambi sul mattone sbriciolato, rovescio educato, variazioni ma un gioco al volo non eccellente. Negli anni dei grandi australiani, Laver, vincitore del Grande Slam, Rosewall, Hoad, Emerson, Pietrangeli diventa il primo tennista italiano a vincere un torneo dello Slam. Trionfa a Parigi nel 1959 battendo il sudafricano Ian Vermaak, ripetendo il successo l’anno successivo contro il cileno Luis Ayala. Ma non solo Roland Garros, vince a Roma due volte, battendo nel 1961 in finale Rod Laver, e nel 1960 raggiunge la semifinale di Wimbledon diventando l'unico italiano a riuscirci, record battuto da Berrettini solo nel 2021. Ma il suo grande amore rimane la Davis: “Lo scopo di uno sportivo è indossare la maglia azzurra” ha dichiarato, e nel torneo per nazionali è tutt'ora il primatista assoluto di vittorie e partecipazioni.
Proprio l'Insalatiera conquistata, fra i tanti successi, è sempre stato per lui quello più caro. Raggiunto sul campo dai giocatori ma da Pietrangeli nelle tribune politiche e nel dibattito pubblico. La squadra azzurra si qualifica infatti per le finali di Coppa Davis nel Cile del dittatore Pinochet, in panchina proprio Nicola Pietrangeli nelle vesti di capitano non giocatore, il commissario tecnico del tennis per nazionali. La nazione si divide fra quelli favorevoli alla partenza e i sostenitori del boicottaggio, guidati dal Pci. Nell'inerzia del governo e del Coni proprio la battaglia quasi solitaria di Pietrangeli, onnipresente in quei giorni nei telegiornali e nei talk show televisivi, è stata decisiva per la partenza della spedizione azzurra. Non si lascerà mai sedurre dal professionismo, quando Jack Kramer gli offre 60 mila dollari per entrare nel suo circuito vacilla, poi accetta, ma dopo poco cambia idea. L'arrivo della fiamma olimpica ai Giochi di Roma del 1960 e il Giuramento degli atleti pronunciato da Adolfo Consolini lo emozionano a tal punto da convincerlo a restare nei dilettanti. Del resto lui non ha mai agito per soldi, Pietrangeli era un edonista, tutto quello che faceva lo faceva per il proprio piacere, compreso il tennis. Disse che il tennis è lo sport dei pazzi e degli uomini soli, senza specificare in quale categoria lui rientrasse. Dopo il ritiro è emersa la sua personalità, spigolosa e divisiva. Eccentrico ed egocentrico, è stato un arcitaliano che ha incarnato i nostri vizi e le nostre virtù. In lotta contro un passato che, secondo lui, non gli ha restituito quanto dovuto in termini economici e di successo.
Con i suoi commenti semiseri e affilati si è erto a censore del tennis italiano, ricordando un'epoca che non esiste più. Quella degli abiti bianchi e delle racchette di legno, dominato da gentleman amatori. Riferendosi allo stile di gioco odierno ha ironicamente chiosato: “Ieri dovevi anche saper giocare a tennis...”. In eterna sfida con gli altri grandi del tennis italiano, Panatta prima, allievo e poi traditore, e Sinner poi, Pietrangeli era sicuro: “Il miglior tennista italiano? Sono io. Adriano Panatta è nato per giocare a tennis ma è durato un po’ poco. Ognuno è stato campione della sua epoca però bisognerebbe prendere un libro, informarsi sulla storia e poi ne riparliamo”, mentre sul fenomeno altoatesino era sicuro: “Bravo, per carità, però non gli basteranno due vite per superarmi”. Ma la verità è che se oggi ci sono i Sinner, i Musetti e i Berrettini, se ieri ci sono stati Panatta, Barazzutti e Bertolucci, lo si deve a Nicola Pietrangeli, pioniere e primo Re del tennis azzurro quando alla racchetta i giornali riservavano un saltuario trafiletto. “È stato il primo a insegnarci cosa volesse dire vincere davvero, dentro e fuori dal campo. È stato il punto di partenza di tutto quello che il nostro tennis è diventato. Con lui abbiamo capito che anche noi potevamo competere con il mondo, che sognare in grande non era più un azzardo”. Ha dichiarato oggi il Presidente della Federazione Italiana Tennis e Padel Angelo Binaghi. Ha fatto in tempo negli ultimi anni della sua vita a vedere il giusto riconoscimento all'impresa del '76, arrivato grazie alla docuserie “Una squadra” di Domenico Procacci, e ha fatto in tempo a vedere l'Italia riprendersi l'Insalatiera, per ben tre volte. Già fortemente malato la morte del figlio, per un tumore lo scorso luglio, ha prosciugato le ultime gocce di quella voglia di vivere che sembrava interminabile. Avrebbe voluto che il suo funerale si fosse svolto nel campo che porta il suo nome, l'ex “Stadio della Pallacorda” al Foro Italico, oggi stadio “Nicola Pietrangeli”, circondato dagli sguardi delle diciotto statue degli atleti olimpionici, una scelta solenne, ma poi come al suo solito arriva la smorzata: “Perché? Si trova facilmente posteggio; due preti, cristiano e ortodosso: sono russo, ricorda? Musica di Sinatra, che conobbi al torneo di Indian Wells. E se piove si rimanda: non vorrei che le signore si bagnassero le scarpe”.