Sinner è stato in campo per meno di tre ore e mezzo a Riyad. Un tempo che gli è valso 6 milioni di dollari e una racchetta d’oro. Certo, le partite vanno vinte. E Jannik lo ha fatto, con l’autorevolezza del campione, sia contro Stefanos Tsitsipas che contro Carlos Alcaraz in finale. I primi due del ranking si sono già dati appuntamento alle Finals. Tempo qualche giorno, Sinner torna in Italia, riposo, allenamento e a letto presto. Poi la dichiarazione di Filippo Volandri: Jannik “non ha dato la sua disponibilità per la Coppa Davis”, che si giocherà a Bologna il prossimo novembre. Niente three-peat per l’altoatesino, dunque. Già l’anno scorso c’era stato un ripensamento (per fortuna) e l’Italia ha poi vinto il titolo per la seconda volta di fila. Quest’anno, a meno di cambi di copione, l’azzurro non ci sarà. Peccato, menomale, chissenefrega: queste, fondamentalmente, le tre possibili reazioni alla notizia. Peccato perché l’intera Nazione lo aspetta, quasi lo brama, si aspetta di sapere cosa mangerà prima del match (e che sia qualcosa di digeribile). E poi la passione, il senso di appartenenza: dove sono? Non c’è solo il ranking, lo sport è molto di più. Qualcuno, magari i più attenti alla salute del tennista e alla possibilità di riprendere la prima posizione in classifica, dicono menomale, razionalmente convinti che il “no” fosse la scelta giusta da fare. In fondo Jannik l’ha già vinta due volte, cos’altro deve dimostrare? I chissenefrega (pochissimi), invece, sono solo i chissenefrega. Al massimo il principio di fondo del menefreghismo potrebbe essere qualcosa tipo: l’Italia è l’Italia, pure senza Sinner, se ne torni in Arabia.

Magari ci ripenserà il numero due del mondo. Più probabilmente andrà dritto per la sua strada. C’è però un dubbio che ci sorge spontaneo, guardando il dibattito sul tema: che valore ha ancora la Nazionale? Chi si mette la casacca azzurra che principi si propone di incarnare? Rappresentare il proprio Paese significa rappresentare il popolo e le sue passioni. Se di valori dobbiamo parlare, però, la cosa si complica. Sinner è appena tornato da Riyad, dove ha giocato due match di esibizione profumatamente pagati. Abbiamo scritto del libro di James Montague, Ingolfato, in cui l’autore rende chiare al lettore tutte le contraddizioni dell’Arabia Saudita, i rapporti tra i vertici dello sport occidentale e il principe bin Salman, delle questioni morali che si sono aperte tra i tifosi del Newcastle dopo la notizia del possibile acquisto del club da parte del Pif, il fondo d’investimento saudita. In Arabia ci sono state 345 esecuzioni nel 2024. Mai così tante. Eppure basta così poco, in Italia, per indignarsi di fronte a qualche vetrina rotta. Nessuno è santo, nessuno è diavolo: lo sport, come la politica, ha le sue contraddizioni. In Arabia ci si va per soldi, e in parte – ma solo in minima parte – per giocare contro i migliori. Di certo non per le questioni di principio. Ma quelle scelte ci si portano dietro, anche quando si deve andare in Nazionale. Sinner è il più grande campione azzurro in attività. Per questo l’Italia ha bisogno di lui. Ancora nel libro di Montague un vecchio tifoso del Newcastle, innamorato della squadra della sua città, ha deciso di non andare più allo stadio. Va invece a guardare le partite dei dilettanti, sotto le lamiere ghiacciate dal freddo del nord-est dell’Inghilterra. Una scelta radicale, che in quanto tale non troverà mai troppo seguito. E non sarebbe nemmeno giusto chiederlo. L’industria si è divorata, in gran parte, le questioni morali. Ma è inevitabile che a risentire di ciò saranno proprio i valori che la maglia della Nazionale rappresenta, al di là di ogni retorica: quel torneo, in fondo, per Sinner sarebbe stato solo e soltanto tennis.
