Chiunque conosca la tradizione del Superbowl, sa che esso va ben oltre l’evento sportivo. Non è solo la chiusura del lungo campionato di football americano ma è soprattutto un evento cult, un fenomeno di intrattenimento e tradizione al quale ogni anno prendono parte milioni di vip. Ma il palco più grande d’America è notoriamente al centro di polemiche e denunce sociali e politiche. Quest’anno non è stato da meno ed il Superdome si è rivelato spettatore privilegiato dell’esplosivo mix tra intrattenimento e politica. Lo spettacolo ha avuto come protagonista assoluto Kendrick Lamar, e, per tutti coloro che credevano avremmo assistito ad un’asettica esibizione fatta solo di musica e coreografie, abbiamo una cattiva notizia: Kendrick ha creato uno spettacolo magistrale ed ha lanciato messaggi che non rimarranno inascoltati. “La rivoluzione sta per essere mandata in onda” annuncia con il sorriso di chi ha architettato uno show titanico, poi le luci calano e si dà il via all’esibizione. Considerato uno dei migliori rapper della sua generazione e fresco di vittoria ai Grammy Awards, è stato padrone indiscusso del palco più grande al mondo, mettendo in atto un vero e proprio American Show o, come detto dall’acclamatissimo Samuel L. Jackson nei panni dello zio Sam, il Great American Game.

La scenografia è ciò che ha reso questo halftime uno dei più grandi degli ultimi anni: il campo è diventato un enorme joystick e l’artista cantava accompagnato dai suoi ballerini, in una zona di luce simile ad un campo di prigionia. Apparentemente pedina all’interno del gioco americano, il rapper di Compton elettrizza l’intero stadio durante i canonici tredici minuti nei quali si è esibito con i suoi maggiori successi. Presenta, nella notte più lunga dello sport mondiale, i suoi iconici testi, mostrandosi genio dello storytelling. Pezzi di denuncia sociale, introspettivi, che analizzano davanti al grandioso pubblico di New Orleans, la realtà ancora troppo difficile della cultura afroamericana e che gli hanno visto meritatamente riconosciuto il premio Pulitzer. Momenti di confusione si sono susseguiti quando, un manifestante intrufolatosi tra il corpo di ballo, ha sventolato la bandiera del Sudan e della Palestina, tentando di sfruttare le luci della ribalta per mandare un messaggio sulle crisi umanitarie.
Tentativo ben presto sedato dalla sicurezza e lo stesso Lamar non si è lasciato distrarre, continuando con la sua performance da capogiro. Lamar, considerato non a caso, il re dell’hip hop degli ultimi tempi, non accetta di condividere il trono ed approfitta del palco più iconico al mondo, oltre che per mandare un messaggio rivoluzionario, anche per chiudere una faida artistica, iniziata tempo fa, con Drake. L’artista canta Not like Us, noto brano contro il rapper, beandosi della presenza di una Serena Williams, ex di Drake, nei panni di ballerina in campo. La performance si chiude con un iconico Game Over proiettato sugli spalti, rimarcando la sua sovranità nella scena musicale e dichiarando la fine di quel grande gioco americano nel quale non vi sono più pedine. Kendrick ne esce vincitore acclamato.

Il tutto avviene, sotto l’occhio attento di un Donald Trump che, primo presidente nella storia ad aver presenziato al Superbowl, pare non abbia gradito lo spettacolo e soprattutto l’esito della partita, lasciando gli spalti prima della fine. Il match, infatti, ha visto trionfanti quei Philadelphia Eagles, da sempre esponenti di spicco nella lotta per i diritti, che ormai si possono considerare nemici di vecchia data di Trump e che nel 2018 disertarono l’invito del presidente alla Casa Bianca che aveva criticato la loro iniziativa di inginocchiarsi in campo come simbolo di solidarietà al movimento Black Lives Matter. Invito che quest’anno non sarà rinnovato e che probabilmente vedrà una piccola delegazione presenziare per loro conto. Ma neanche Taylor Swift, nemesi per eccellenza del Presidente, è stata esente dalle polemiche. La pop star infatti, presente in tribuna per sostenere il fidanzato Travis Kelce, è stata fischiata a lungo da un pubblico che non gradiva la sua presenza o che più realisticamente, scaricava su di lei la frustrazione per la scarsa prestazione dei Chiefs. In un clima teso e di velata denuncia politica, la vittoria degli Eagles sembra provvidenziale e si configura come coronamento di una serata che ha ribaltato gli equilibri esistenti. Un Superbowl da ricordare e che diviene simbolo di una cultura americana in continua evoluzione, che non fallisce mai nel far parlare di sé.
