C’è chi perde e si spegne. E poi c’è chi perde e si ricompone, pezzo per pezzo. Alexander Zverev ha perso male, lo sa lui, lo sappiamo tutti. La finale di Melbourne è una di quelle che ti restano addosso, perché sembrava scritta per essere la sua. E invece no. Quel giorno Jannik Sinner ha cambiato la storia del tennis italiano, ma anche quella del tedesco, che da allora si è ritrovato a inseguire non solo un titolo, ma la propria identità. Non ha fatto drammi, ma non si è nemmeno nascosto dietro frasi rassicuranti. “Mi ha fatto più male di quanto pensassi”, ha detto con onestà. Ma il punto non è il dolore. Il punto è che non si è arreso. Zverev non si è preso una pausa, non è sparito. Non si è inventato una strategia di rientro studiata a tavolino. Ha fatto quello che fanno i veri sportivi: ha continuato a giocare. Anche senza voglia, anche con la testa da un’altra parte. “Avrei voluto staccare anch’io”, ha raccontato in un’intervista a la Repubblica, “ma il tennis non è solo passione: è lavoro, affari. Gli impegni erano già programmati. E per quanto i posti siano bellissimi, a volte l’unico luogo dove vuoi stare è casa tua”.

Finalmente, a Montecarlo, dove vive, ha potuto fermarsi. Riprendersi. Dormire nel proprio letto. Abbracciare sua figlia. Ritrovare un briciolo di leggerezza. “Mi sento fresco, rilassato. Certo, un po’ di dolore alla cervicale, l’età avanza”, dice ridendo. Ma in realtà è tutto molto serio: Zverev sta ricostruendo la versione migliore di sé. Il tennis è un clic. Lo dice lui. Serve una vittoria, un break inaspettato, un momento che riaccende tutto. “A questi livelli ogni partita è difficile. Ma basta un attimo per rimettere in moto le cose. Clic. E tutto prende velocità”. Dal 14 aprile, Sinner tornerà in campo. E nel frattempo Zverev lo aspetta. Non per un regolamento di conti, ma per una nuova misurazione del proprio valore. Perché chi perde così, in una finale che poteva essere tutto, ha bisogno di rigiocarla nella testa, ma soprattutto nel fisico. “Jannik ha iniziato l’anno come l’aveva finito: da numero uno. Non era infortunato, ha lavorato sui dettagli. Gli basterà pochissimo per tornare al suo livello. Se mai lo ha perso”.

E allora, chi guarda solo il ranking rischia di non capire. Zverev è secondo, ma il vuoto lasciato dalla mancanza di uno Slam pesa più del numero accanto al nome. Eppure, invece di inseguire disperatamente un trofeo, ha cominciato a lavorare su un’altra cosa: la sua tenuta mentale. “L’anno scorso è stato strano”, riflette. “Io ho giocato male nella seconda parte, Alcaraz è stato disordinato, Sinner invece è stato costante. Ora siamo tutti lì. Con Djokovic, ovviamente. Siamo in quattro. E i veri valori emergeranno col tempo”. Gli chiedono se sente la pressione, se la maledizione dello Slam lo perseguita. Lui sorride. “Io ho paura solo dei ragni”. Una battuta, certo. Ma anche un modo per dire che non si fa condizionare da ciò che manca, ma da ciò che ancora può costruire. Roma è uno dei punti fissi nella sua mappa mentale. Gli Internazionali li ha già vinti due volte, ci tiene. “L’Italia mi piace tutta. Roma ha energia, storia, passione. È uno degli obiettivi della mia stagione. Ma il focus è anche sul Roland Garros”.

E se a Roma dovesse ritrovarsi di fronte ancora Sinner? Non sarebbe solo una rivincita. Sarebbe il momento giusto per chiudere il cerchio. “Se lo affronterò, sarà in finale. E vedremo cosa succede. Sarebbe molto interessante”. Ma tra le righe c’è molto di più. Non vuole evitarlo, lo vuole proprio lì. Perché chi perde così, se è un campione, non vuole cambiare avversario: vuole tornare davanti allo stesso, per dimostrare a sé stesso che può farcela. Che il lavoro ha un senso. Che non tutto finisce in una palla break mancata. Zverev non si è lasciato andare. Ha detto “ci provo”. Perché è questo che fanno i veri campioni: non aspettano condizioni perfette, creano le condizioni dentro di sé. Anche fuori dal campo, Zverev si è fatto sentire. Insieme ad altri venti top player ha firmato una richiesta ufficiale per avere più voce, più welfare, una fetta più equa del prize money. “Non vogliamo il 50% come in Nba, sarebbe irrealistico. Ma qualcosa di più, sì. Ce lo meritiamo. E ci stiamo muovendo formalmente”. Per ora, però, tutto passa di nuovo da qui: il campo. La voglia. La fame. E la convinzione che provarci sia già un atto di forza, anche quando gli altri ti danno per finito.
“Devi crederci. Sempre. Perché quando ci credi, anche solo per un punto, per un set, per un torneo, qualcosa succede. Magari non oggi, magari non domani. Ma succede”. E se c’è un modo per tornare al top, non è cercare di dimenticare la sconfitta. È ricordarsela ogni giorno. Fino a quando non smette di bruciare.