Quando vorrà smetterla di collezionare trionfi sportivi, Julio Velasco potrebbe dedicarsi all’opera più importante della sua vita: spiegarci chi siamo noi italiani. Scrivere un bel trattato su pregi e difetti di un Paese e di un popolo che ha visto cambiare. In meglio o in peggio, ce lo dirà. E quale che fosse il giudizio, lo accetteremmo. Dobbiamo farlo. E non soltanto per la gratitudine che gli dobbiamo, per quel farci sentire orgogliosamente “italiani nonostante”. Ma soprattutto perché, in questo Paese, Julio Velasco si è adattato con una facilità che richiede un talento straordinario. Pienamente italiano per come si è integrato, ma senza disperdere quella diversità che gli permette di non lasciarsi contagiare dai vizi nazionali e dalle meschinità quotidiane in cui siamo maestri. Il nostro vero Made in Italy. E certo, è facile scrivere adesso parole come queste. Sull’onda dell’ennesimo trionfo collezionato da Velasco con la nazionale femminile: l’oro mondiale conquistato a un anno di distanza dall’oro olimpico, e le 36 partite vinte in sequenza da giugno di un anno fa. La sua seconda vita da allenatore vincente, nella pallavolo femminile, dopo quella che nel settore maschile gli aveva permesso di collezionare successi. E altrettanto bello è stato vederlo commosso e silente, mentre le ragazze da lui allenate cantavano sul podio l’inno di Mameli. Alla bella età di 73 anni, dopo una carriera da uomo pubblico persino più ampia che quella da allenatore, cosa d’altro può sentirsi chiedere questo intellettuale della panchina che non perde mai tempo a pronunciare parole e concetti banali. Appunto, questo: vorrebbe, Julio Velasco, raccontare gli italiani a loro medesimi? Può farlo, ne ha facoltà. Possiede gli argomenti e la chiara capacità di esporli. Soprattutto, può giovarsi di quel profilo personale che ne fa un “extra” ovunque si trovi. Cittadino del mondo anziché di un singolo Paese. Un po’ per scelta e un po’ per necessità. A partire dalle origini familiari, che lo hanno visto crescere in Argentina come figlio di una famiglia formata da un padre peruviano e da una madre di origini inglesi. E poi la lunga permanenza in Italia. A partire dal 1983, una vita fa.

Aveva 31 anni e nemmeno lui avrebbe immaginato di diventare leader morale in un Paese straniero. Si è integrato con una velocità inattesa, ma senza diventare mai completamente italiano. Per sua fortuna, verrebbe da dire. Ciò che comunque gli consente di avere un profilo distaccato abbastanza da poter dire “voi italiani”. Con quella punta di affetto che gli riconosciamo e per la quale gli siamo grati. È il senso del suo essere extra-italiano: nostro connazionale ormai acquisito, ma con quel margine di diversità che gli preserva la facoltà di cogliere ancora le nostre peculiarità e tutto ciò che ci fa popolo con un senso di comune destino. Ci ha visto evolvere e cambiare. Ci ha visto cadere e provare a rialzarci. Ci ha anche visto peggiorare, ma questo non ce lo dirà mai. Magari sceglierà i modi obliqui per farcelo intendere. Certamente ha una visione delle cose molto più lucida di tanti fra quelli che oggi s’impancano e pretendono di possedere il mestiere di spiegare chi siamo e dove stiamo andando. Per questo, caro Julio Velasco, glielo chiediamo sentitamente: ci spieghi chi siamo, noi italiani, in questo 2025. Compia il vero, grande atto d’amore verso questo popolo. Soprattutto, non lasci che a farlo siano soltanto gli aldicazzulli e altra fauna sparsa. Lei può. Lo faccia. Gliene saremo grati ancor più che per le gioie sportive di cui ci ha fatto dono in oltre quarant’anni.
