Stefano Nazzi non è un telecronista, non è il solito volto che racconta il calcio o lo sport per mestiere, e chiaramente non è nemmeno un opinionista da bar. È un cronista di sangue, di processi, di famiglie sventrate dalla violenza, di uomini e donne inghiottiti da delitti mai del tutto chiusi. Eppure, in un video pubblicato sul canale YouTube Prime Video Sport It, ha deciso di parlare dell’Inter. Perché? Perché l’Inter è morta. Non una, ma due volte in meno di un mese. Una morte apparente il 6 maggio, poi diventata trionfo. Un trionfo effimero, perché il 31 maggio è arrivata la morte vera e definitiva.
Il titolo del video è già un colpo di lama: “Il cold case Inter raccontato da Stefano Nazzi”. Non un racconto sportivo, ma una perizia, un’autopsia narrativa. Nazzi parte dalla finale di Champions League di Monaco di Baviera, la finale che si è trasformata in un massacro: 5-0 del Paris Saint-Germain alla squadra di Inzaghi. Non una sconfitta: un’esecuzione.
“Questa – sottolinea Nazzi – non è una storia di cronaca, non è terribile, chiariamolo subito. È solo una storia di vita. Però c’è un mistero, qualcosa di inspiegabile”. Il mistero è semplice e insieme insopportabile: come una squadra che aveva fatto propria l’epica semifinale con il Barcellona a San Siro, possa poi essere stata annientata dal Psg senza nemmeno esistere, ridotta a sparring partner zombie di una partita non partita. Un 5-0 con la consistenza di un’asportazione di organi eseguita senza anestesia, un massacro tecnico ed emotivo che nessun interista ha il coraggio di ricordare, figurarsi di riguardare. Poi arriva Stefano Nazzi, e quello che fa non è cronaca sportiva. È necroscopia. Nazzi parla di “buco nero”, di “overkilling”. Vocaboli presi dalla criminologia, dal lessico del sangue, e catapultati dentro il prato verde dell’Allianz Arena. Chi guarda resta ipnotizzato: non c’è più calcio, c’è un referto di morte.
Ed è qui la vertigine. I tifosi dell’Inter non vogliono vederlo perché Nazzi dice quello che tutti sanno ma nessuno ammette: la finale non è mai stata una finale, è stata un linciaggio. Un overkilling, appunto: colpire oltre il necessario, infierire sulla vittima anche quando basterebbe un solo colpo. Il Psg non si è accontentato di vincere. Ha cancellato. Umiliato. Sterilizzato ogni residuo di gloria nerazzurra, apparentemente con la complicità o il tacito consenso della stessa vittima.
Il 5-0 come codice penale della disfatta. Gol dopo gol, non c’era solo il vantaggio, c’era l’accanimento terapeutico al contrario: un accanimento distruttivo, la volontà di togliere ossigeno e lasciare il corpo esanime davanti al mondo. E se il calcio è teatro, quella sera Monaco è stata una scena del crimine con decine di migliaia di testimoni sul posto e centinaia di milioni a distanza.
Nazzi lo racconta con il suo metodo. Fa un passo indietro, torna al 6 maggio, alla semifinale di ritorno a Milano, all’apoteosi contro il Barcellona dominatore e vincitore momentaneo: poi il pareggio di Acerbi al 93’, il gol qualificazione di Frattesi al 99’, la resurrezione che sembrava miracolosa. Ogni tifoso interista ha congelato lì la memoria, nel boato di San Siro, nelle lacrime euforiche, nel cuore che scoppia. Ricordare la gioia per cancellare il dolore. Ma Nazzi non concede questa fuga. Riporta tutti al punto zero. Al punto cinque a zero. Il 31 maggio, il tabellone dello stadio che emette il verdetto numerico.
Il pubblico reagisce come davanti a un processo mediatico: c’è chi applaude alla forza della narrazione (“la cosa più bella che Amazon abbia mai fatto”), e c’è chi distoglie lo sguardo, chi non ne vuole proprio sapere. Perché guardare quel video significa riconoscere che la sconfitta non è un episodio sportivo, ma un atto esistenziale. Non riguarda solo undici giocatori in campo. Riguarda l’idea stessa che i tifosi hanno di sé e di ciò in cui si identificano: vincenti o vittime? Epici o ridicoli?
Ecco il punto: i tifosi dell’Inter non vogliono vedere perché il video li smaschera. Non tanto per il risultato, ma per il modo in cui Nazzi – peraltro interista – glielo restituisce. Con il tono dell’autopsia, non del commento tecnico. Con la freddezza che trasforma la passione in referto. È come se il proprio migliore amico, quello con cui hai condiviso birre e bestemmie davanti alla tv, fosse anche l’anatomopatologo che ti descrive la causa della tua morte: “Lesione multipla da avversaria contundente su corpo inerte, reiterata oltre il necessario”.

Si potrebbe dire: è solo calcio. Ma non lo è mai stato, non lo sarà mai. La disfatta di Monaco è stata la dimostrazione che il calcio non perdona, che può risucchiare nel buio quasi come la cronaca nera. E almeno lì c’è un colpevole, un movente, una spiegazione. Qui no. Qui resta il vuoto.
Nazzi parla di partita non giocata, e ha ragione. Perché a Monaco l’Inter non è scesa in campo, o meglio: il corpo era presente, l’anima (o l’animo) no. Un fenomeno da processare con le stesse domande che si fanno nelle aule di tribunale: cosa è successo? Perché? Chi ha permesso questa strage tecnica? Il Psg come carnefice, certo, ma l’Inter come masochista consenziente, quasi anestetizzata dalla propria stessa gloria precedente.
E allora sì, è un cold case, e non c’è soluzione all’orizzonte. Gli esperti tattici possono parlare di moduli, di pressing, di fragilità mentale, di errori individuali. Ma niente di tutto questo basta. La verità è che quella sera è evaporata un’identità, e non c’è spiegazione per un collasso spirituale.
Alcuni commenti su YouTube chiedono una serie intera di Nazzi che racconta il calcio come fosse nera. Forse hanno ragione. Forse solo trattando il pallone come un delitto si riesce a capire la dimensione di certi eventi. Perché altrimenti restano cronache sportive, statistiche, numeri. Qui invece c’è carne, sangue, sudore e vergogna.

Il video è un capolavoro o una tortura? Probabilmente entrambe le cose. Perché i capolavori autentici non consolano mai, non ti accarezzano, non ti fanno dormire. Ti svegliano, ti mettono davanti allo specchio. E lo specchio dei tifosi interisti, oggi, riflette non la gloria ma l’assenza, non la festa ma la camera ardente di una finale dissolta.
Nazzi chiude con una fuga all’indietro, riportando il tempo al 6 maggio, a quel respiro collettivo che sembrava eterno. Una consolazione apparente, un rewind che è più crudele della condanna stessa. Perché nel ricordare la gioia, si riconferma la profondità della caduta. Il calcio come rito necrofilo: ti riporta dove eri vivo per farti vedere meglio come sei morto. E il 31 maggio 2025 diventa il 5 maggio 2002, quando l'Inter perse lo Scudetto - che aveva già quasi sul petto - all'ultima giornata, tra le lacrime.
E i tifosi, davanti a tutto questo, hanno solo due opzioni: guardare e sanguinare, oppure chiudere gli occhi e fingere che non sia mai successo. Ma i cold case, si sa, tornano sempre a galla. Anche quelli con il pallone