Con la sua nuova formula a “final four”, dall’ipocrisia malcelata da un più che vago concetto di meritocrazia, con lo scarso interesse di diversi dei protagonisti e quello del pubblico, dopo il tira e molla su una calendarizzazione cambiata più volte, l’edizione della Supercoppa italiana attualmente in corso di svolgimento a Riad, in Arabia Saudita, è probabilmente il migliore spot per la Superlega, o chi per essa. Per un pugno di “petroldollari” – perché il calcio italiano l’Arabia Saudita la critica perché spende e spande per creare un torneo nazionale appetibile, ma sa che non può ignorarla quale munifico stakeholder del pallone del futuro – la Lega di Serie A, con questa Supercoppa, sta dando un ulteriore colpo alla svalutazione del proprio prodotto a livello internazionale. La formula, tanto per dire: quattro squadre e non più due, con l’aggiunta della finalista sconfitta della Coppa Italia e della seconda in classifica dello scorso campionato, un copia e incolla di quanto accade nella Supercoppa spagnola (che si gioca proprio in Arabia Saudita) ma senza uno straccio di tradizione e senza altro motivo – suvvia, quale meritocrazia? – che non sia la moltiplicazione delle partite da trasmettere live, non più una ma tre. Il risultato? Due settimane di discussione, a dicembre, sulle date da utilizzare, con un balletto abbastanza ridicolo nel quale, alla fine, il cliente ha vinto (originariamente semifinali e finali erano state fissate tra il 4 e l’8 gennaio, poi tra il 21 e il 25 gennaio, infine tra il 18 e il 21, con conseguenze inevitabili sui cambiamenti di date sui recuperi delle gare saltate in campionato), con annesse alcune dichiarazioni, quelle dell’allenatore della Lazio Maurizio Sarri, che più volte aveva affermato il proprio disappunto tanto per la partecipazione al torneo, quanto per la location saudita.
A pochi giorni dalla finale tra Napoli e Inter - guarda caso le vincitrici di scudetto e Coppa Italia - con il ritorno in Italia di Fiorentina e Lazio, le squadre sconfitte in semifinale, che sono parse più scocciate per la trasferta (certo ben pagata, ma la foga agonistica è altra cosa) che desiderose di arrivare in finale, fanno discutere i dati della presenza del pubblico a Riad. Giovedì per Napoli-Fiorentina c’erano meno di diecimila spettatori, venerdì per Inter-Lazio erano ventimila in uno stadio, quello dedicato a Re Saud, con una capienza di venticinquemila posti. Per dire: tutte le partite della Supercoppa spagnola (Real Madrid-Atletico Madrid, Barcellona-Osasuna e la finale, ovviamente Real-Barcellona) la scorsa settimana hanno tutte superato le 23.500 presenze, per un sostanziale tutto esaurito. Forse accadrà per la finale di lunedì, ma la realtà è presto detta: se non giocano Juventus, Milan e Inter, della Supercoppa italiana non frega nulla a nessuno. Ora, la storia della Supercoppa italiana è già di suo la storia di una sceneggiatura non originale che, spesso, è stata portata su palcoscenici discutibili. Il trofeo è relativamente recente, essendo nato nel 1988, quando gli omologhi dei maggiori campionati europei erano già appuntamenti classici: il Charity Shield inglese era nato nel 1908, il Trophée des Champions francese nel 1955, la Supertaça portoghese nel 1981 (ma con alcune edizioni non ufficiali in precedenza) e la supercoppa spagnola nel 1982. Giusto la supercoppa tedesca ha appena un anno in più di quella italiana, ma almeno non è mai uscita dalla Germania, mentre la nostra Supercoppa ha da sempre onorato il pecunia non olet, cercando denari negli Stati Uniti (edizioni 1993 e 2003), nella Libia di Gheddafi (2002), in Cina per quattro volte (2009, 2011, 2012, 2015), in Qatar per due (2014 e 2016) e in Arabia Saudita, dove questa edizione è la quarta dopo quelle del 2018, 2019 e 2022, e altre tre nei prossimi cinque anni seguiranno da contratto. Ciò significa, banalmente che di 37 edizioni, ben tredici (oltre il 35%) si sono svolte dall’Italia, alla faccia del calcio del popolo, del rispetto per i tifosi – certe trasferte, per meri aspetti economici, sono possibili solo a una manciata di ultras, non di rado agevolati dai club, certo non al tifoso medio – e per la tradizione, concetto quanto mai ridicolo sulle bocche di alcuni dirigenti apicali del calcio le cui crociate, al cospetto di opere e omissioni, appaiono grottesche.