Filippo Facci ha deciso di entrare nel dibattito sul ritiro di Jannik Sinner in finale a Cincinnati. Il suo esordio, in un post su Facebook, è una stilettata: «A quando un torneo nel Sahara?» Non una battuta, ma un manifesto. Subito dopo la constatazione: «Si erano già ritirati solo in otto, che volete che sia». Il numero diventa satira e statistica allo stesso tempo. Facci non concede sconti. Scrive: «Chiunque segua il tennis sa che Sinner si è ritirato per il caldo, mica per la torta di compleanno o altre scemenze scagliate nella gara a chi la spara più grossa». La motivazione ufficiale annunciata nelle ultime ore dal coach di Jannik, Cahill, è quella di un virus.
Il cuore del ragionamento è però una contraddizione che Facci mette a nudo: «Cioè, ricapitoliamo: si organizzano dei controlli antidoping da Kgb, con le vite degli atleti che vengono discusse per tracce di pomata sui polpastrelli (altrui) ma si permette che dei ragazzini giochino in condizioni disumane». Da un lato la chimica ossessiva (con riferimento al caso Clostebol costato a Sinner una squalifica per contaminazione involontaria) dall’altro la salute vera, ridotta a «variabile secondaria».
Il post entra poi nel dettaglio: trentacinque gradi, ottantacinque per cento di umidità, otto ritiri in pochi giorni. E la provocazione che fa discutere: «Solo un africano (o un murgiano come Alcaraz) può non avere problemi». Una frase (probabilmente Facci intendeva “murciano”, perché le Murge non sono in Spagna) che rende plastica la questione: la sopravvivenza atletica è ormai una lotteria geografica?

Sinner stesso ha confessato che è stato il torneo più caldo della sua vita. «Dieci minuti prima di entrare era stato in una player lounge con l’aria condizionata tipo Lapponia, e poi, subito dopo, eccolo in un forno umido con la gente che sveniva (letteralmente) sugli spalti», scrive Facci. E aggiunge un dettaglio che inchioda il calendario: il torneo allungato per sponsor e biglietti, mentre Sinner, in teoria, avrebbe dovuto già correre a New York per lo US Open.
Il paradosso non è nuovo. Facci lo dimostra snocciolando precedenti: nel 2014 Djokovic e Murray si trascinavano in semifinale a Melbourne con quaranta gradi; nel 2018 fu Monfils a crollare per un colpo di calore; nello stesso anno Federer confessò: «Non riuscivo a muovermi, mi mancava l’aria». Olimpiadi di Tokyo, 2021: Medvedev all’arbitro, glaciale e disperato insieme: «Posso finire la partita, ma posso anche morire».
L’atto d’accusa non riguarda solo gli organizzatori. Anche gli atleti, ricorda Facci citando Paolo Bertolucci, hanno responsabilità: «Accettano tornei più lunghi e finali alle tre del pomeriggio per sempre più soldi e sempre meno buonsenso». E il risultato è «uno spettacolo falsato, una fiera di asciugamani bagnati, crampi e vomiti e ritiri». Non vince più il più forte, ma chi resiste, trasformando il tennis in una «gara di sopravvivenza».

Il colpo finale arriva con una sintesi secca: «Oggi il tennis rischia di perdere credibilità non per le siringhe, ma per il sole». E con l’invocazione di Bertolucci, che Facci fa propria: «Serve un tavolo, Sos tennis». Ma l’ultima chiosa è velenosa: «Purché ai tavoli non seggano sempre e solo quelli che incassano».
Il post di Facci, nella sua crudezza, apre un varco che va oltre il tennis. È una questione di verità, di priorità capovolte: la salute sacrificata sull’altare del business. Forse la vera domanda non è più se Sinner avrebbe potuto continuare, ma se lo sport di oggi possa ancora permettersi il lusso della finzione.