Alexander Zverev ha perso contro Lorenzo Musetti. Ha perso contro uno che in campo, tra un rovescio lungolinea a tutto braccio da highlights e un dropshot avvelenato, ha come urlo di battaglia “ho due coglioni cosìììììììììì”. E Zverev, invece di tirare fuori i propri, di coglioni, per vincere o per perdere con onore, ha scelto di lamentarsi con tutti delle palle. Pelose, sì, ma color giallo fluorescente, quindi, salvo sorprese, non le sue, e pure difficilmente palle umane (al limite balle umane. Scuse?). Le palle di Roma, non dei romani. Troppo gonfie, difficili da colpire in maniera ficcante.

Povere palle degli Internazionali (non dei turisti, ma del torneo di tennis della Capitale: palle colpevoli pure di italianità), che non fanno nemmeno in tempo a uscire dalla confezione che già vengono accusate di non essere performanti, come se fossero ex fidanzate colpevoli di non aver riso abbastanza alle battute di un repertorio teutonico con spolverate di origini russe (tra l’altro non parlate a Sascha di ex fidanzate, per carità). Zverev ha sbraitato al giudice di sedia che quelle palle sembravano quelle con cui giocava da bambino, e il sottotesto era talmente evidente da meritare uno psicanalista più che un arbitro. Il problema, sostiene Sascha, numero due uscente del ranking Atp (risuperato da Alcaraz dopo il ko con Lorenzo, ormai a sua volta entrato in top 10 e con vista sulla top 5) e numero uno entrante della classifica dei meme autoinflitti (il gigante dal capello selvaggio schiacciato da palle troppo grosse che passavano sotto il suo naso), è che con palle del genere non si riesce a fare dei vincenti. Ma forse prima di tutto vincenti bisognerebbe esserlo, no? O almeno perdenti sinceri, con gli altri e con sé stessi. E dopo aver perso come hai perso con Musetti – nettamente, tecnicamente, mentalmente, tennisticamente a tutto tondo – non puoi cavartela parlando di palle, a meno che non intendi quelle che nascondi sotto i calzoncini: sono quelle, più di qualsivoglia sferi da gioco, a determinare se passi il turno o vai a casa, quando il valore tra i due contendenti è paragonabile (spesso, anche quando non lo è del tutto). Zverev nei quarti è stato messo sotto da Musetti, dalle sue palle corte giocate con le palle, e da tutto un repertorio di classe e talento che ti dovrebbe far passare la voglia di parlare della logistica, dell’umidità. della pressione (omettendo quella che ti ha fatto sentire l’avversario). Eppure, niente. Zverev in campo e fuori dal campo ha dato la colpa alle palline: non le sue, quelle di Roma. È sempre una questione di palle, quando non si hanno le palle di dire che si è perso e basta, perché l’altro è stato più bravo.

E allora la morale è una sola, e come tutte le morali vere è vecchia come il mondo e ruvida come la carta vetrata sulle gonadi: chi ha le palle non ha bisogno di parlare di altre palle. Chi sa vincere, lo fa con palle piccole, grandi, molli, gonfie o sgonfie. L’importante è avere le altre — quelle che stanno a sud dello sterno — ben presenti e possibilmente pronte all’uso. Invece, già durante il match Zverev ha guardato il giudice di sedia come si guarda il vicino che ti parcheggia il Suv davanti al passo carraio e gli ha detto testualmente: “Sono stanco di questa merda. Dammi un warning, non me ne frega niente”. E già lì era chiaro che il problema, più che il rimbalzo delle palline, fosse il rimbalzo del suo ego contro il muro compatto del gioco di Lorenzo, che reggeva anche all’obice del servizio del germanico.
La prossima volta, caro Sascha, prima di lamentarti delle dimensioni e della consistenza delle palle, pensa che magari — e diciamolo senza doppisensi, o forse con tutti i doppisensi del mondo — il problema non era quanto quelle fossero gonfie, ma quanto tu (come il tuo gioco) fossi vuoto o svuotato dal tennis di Musetti, che al contrario del tuo non è fatto solo di servizio e di mazzate. E la questione è che a volte (purtroppo solo a volte, ormai, tra materiali, superfici e strapotere di prestanza fisica) nel tennis vince ancora chi sa giocare meglio a tennis.
