Non c'è bisogno di alcuno studio universitario per dirlo: il novantacinque percento dei maschi che guardano il beach volley femminile lo fa perché rimane ipnotizzato dal richiamo ancestrale delle anche che ondeggiano. Le azioni vengono seguite soltanto dalla coda dell'occhio, mentre l'occhio si incolla là dove c'era la coda. Come diceva Aristotele, se qualcosa è bello è anche giusto, quindi nessun problema a riguardo, se non che poi nelle valutazioni intervengono cose come le ideologie, la morale, la religione, e tutto si complica. Il beach volley è uno sport che nasce e si pratica in spiaggia, ed è naturale che la divisa sia un costume da bagno. Ma con le Olimpiadi la polemica ovviamente non è mancata, da entrambe le parti. Molti giornali hanno puntato sul caldo come motivazione tecnica: le atlete egiziane come fanno a giocare sotto al sole, tutte vestite, con 35 gradi? Ma il caldo c'è per tutti, e allora perché le tenniste, le cestiste e tutte le altre atlete non giocano in bikini? La Francia ad esempio ha vietato l'hijab, per tutelare il classico principio di laicità che è un caposaldo della cultura transalpina. Obbligo di esporre la sana e robusta costituzione delle proprie bellezze posteriori, dunque, ma cosa dice il regolamento, e che implicazioni problematiche ci sono dal punto di vista del femminismo?
Il regolamento Fipav, in Italia, ordina che le atlete debbano indossare un'uniforme composta da un costume a mutanda, vietando l'utilizzo del “modello perizoma o similari” mentre, per quanto riguarda la parte superiore, è previsto l'obbligo di una canotta o un top. Il regolamento internazionale Fivb dice che “L’equipaggiamento di un giocatore si compone di un pantaloncino o di un costume da bagno. Una canotta o un top è opzionale se non diversamente specificato nella indizione del torneo. I giocatori possono indossare un cappello/copricapo. Per le competizioni mondiali ed ufficiali Fivb, i giocatori della stessa squadra devono indossare divise uniformi dello stesso colore e fattura, come da regolamento del Torneo”. Inoltre, si può concordare l'uso di maglie a maniche lunghe o di vestiti interi, compreso l'hijab che hanno indossato le atlete egiziane, a patto che sia concordato in anticipo come uniforme, e lo stesso vale per tutte le altre divise da gioco.
Ma è sport, si dirà, chi ci vuol vedere la perversione è a sua volta un pervertito. Probabilmente sì, ma i registi spesso ne approfittano per fare delle inquadrature e degli zoom che sembra di guardare una puntata di Ciao Darwin, come a voler confermare che chi segue la disciplina non lo fa perché è appassionato di schiacciate. Le atlete che sono in campo non se ne lamentano, anche perché probabilmente tutto questo attira seguito e sponsor, ed è giustissimo che sia così, ma non dovrebbero lamentare il fatto di dover stare in mutande, in mondovisione, a sudare e dimenarsi? È l'ormai classica diatriba sull'esibizione del corpo che potremmo chiamare il paradosso di Elodie, per fare il nome più famoso e dibattuto sulla questione: l'ostentazione della pelle è rivendicazione di libertà o cooptazione monetizzabile del voyeurismo maschilista? Il confine è labile, e ovviamente la risposta non è coprire tutto né ostentare. Per rispondere, bisognerebbe mettere da parte religioni, ideologie e morale, e riconoscere che già indossare un costume è qualcosa di ideologico. Alle prossime Olimpiadi, tutti senza costume. Basta ipocrisie.
Per le foto di cui parliamo (oltre che per quelle, tra le altre, di Bianca Censori) vi rimandiamo al gruppo Telegram di Mow.