Armand Mondo Duplantis ha fatto ancora quello che ormai sembra routine: un nuovo record mondiale e un altro titolo globale. A Tokyo il venticinquenne svedese ha superato i 6,30 metri, portando a quattordici il numero di primati battuti nella sua carriera. Un gesto che ha intrattenuto lo Stadio Nazionale fino a tarda sera, con sessantamila spettatori rimasti per vedere se davvero il limite umano poteva spingersi ancora un po’ più in alto.
Il copione è ormai noto. Stavolta la gara di asta maschile dura due ore abbondanti, con un gruppo di contendenti che si ferma intorno ai sei metri. Poi entra in scena Mondo, con le sue scarpe speciali chiamate “Claw”, un chiodo sporgente studiato per aumentare la velocità di rincorsa e l’efficacia del momento del salto (perché non le usa sempre? Perché rischia di graffiarsi, e perché non ci sarebbe lo stesso palco). Sale, sbaglia di un soffio, ci riprova, infine al terzo e ultimo tentativo oltrepassa l’asticella. Parte il boato, le telecamere e i fotografi lo accerchiano, il bacio alla fidanzata, la dichiarazione d’amore al pubblico. Un rituale che si ripete centimetro dopo centimetro, record dopo record.

Dietro a quella spettacolarità c’è però un vuoto competitivo. Duplantis ha vinto gli ultimi otto ori mondiali e olimpici messi in palio, indoor e outdoor, senza che nessuno riuscisse ad avvicinarlo davvero. A Tokyo, il greco Emmanouil Karalis ha strappato l’argento con un onorevole ma abissalmente lontano risultato 6,00 metri, arrivando persino ad agitargli un ventilatore in faccia prima dell’ultimo tentativo: un gesto di rispetto, quasi di complicità. La rivalità, in senso stretto, non esiste più.
E allora viene il dubbio: il salto con l’asta sta sopravvivendo come sport o come show personale? I numeri suggeriscono la seconda ipotesi. Oltre ai premi ufficiali (100 mila dollari per il record e 75 mila per l’oro), Duplantis incassa bonus dai suoi sponsor, a cominciare da Puma, che non dichiara cifre ma avrebbe legato parte dei contratti proprio alla caccia al record. A ogni centimetro in più corrisponde un assegno, e non è un caso che il campione scelga progressioni minime: un centimetro alla volta significa più record, più bonus, più ritorno economico.
Lo stesso meccanismo lo porta a fermarsi quando non c’è moneta in palio. “Ci sono state competizioni in cui Duplantis ha saltato 6,10 metri e poi ha deciso di non tentare il record perché non c’era un bonus previsto”, ha osservato la medaglia di bronzo olimpica Holly Bradshaw, stando a quanto riportato dalla Bbc) Non un’accusa, ma la conferma che la gestione della propria leggenda è anche, inevitabilmente, una strategia di business.

Da un lato, quindi, c’è la meraviglia tecnica: un talento che unisce velocità, esplosività e controllo come nessun altro nella storia. Dall’altro, la sensazione che lo sport si sia trasformato in un monologo prevedibile. Per chi segue l’atletica, le domande non sono più “chi vincerà” o “quanto sarà serrata la sfida”, ma solo “fin dove salirà Duplantis stavolta” e “quale cifra incasserà per il suo centimetro aggiuntivo”.
Il rischio, per la disciplina, è di bruciare il proprio pathos. In assenza di rivali credibili, il salto con l’asta rischia di diventare un segmento da intrattenimento inserito in un meeting, utile a tenere il pubblico fino a tarda sera. Funziona, certo: a Tokyo la gente è rimasta sugli spalti ben oltre le 23, solo per vederlo tentare i 6,30 metri (Guardian). Ma quanto può durare questa formula senza che cresca la noia, persino davanti a un fuoriclasse assoluto?