Marc Marquez aveva già festeggiato prima di vincere la gara del Sachsenring. La vera notizia è questa, poiché il fatto che lui sull'asciutto dominasse per trenta giri consecutivi lasciando polvere e vuoto dietro di sé era dato per scontato. Nel box Ducati, dopo il warm-up, gli avevano fatto fatto trovare una grande torta di crema e panna su cui scaglie di fragole e mirtilli andavano a formare un numero tondo: duecento. Il duecentesimo Gran Premio di Marquez in MotoGP è caduto proprio nel giorno della sua gara preferita, quella in cui più di tutte le altre si sente a casa. Una villa reale recintata dal toboga della Sassonia, dieci curve a sinistra e tre a destra, una combinazione tortuosa e indigesta per gran parte dei piloti ma non per lui, che con oggi ha piazzato la decima vittoria in top class sull'asfalto tedesco. La sessantonovesima in MotoGP, superando le 68 di Giacomo Agostini, che è stato il solo insieme allo spagnolo ad andare in doppia cifra di trionfi su una stessa pista nella massima categoria (il salotto di Ago era Imatra, in Finlandia). Marc si porta così a -20 da Valentino Rossi (a quota 89) e puntella una percentuale piuttosto spaventosa: delle duecento gare disputate in MotoGP, ne ha vinte il 34,5%. Più di una gara su tre. Più del dovuto, del necessario, dell'immaginabile. Eppure continua a farlo sembrare normale.
"Ieri avevo sbagliato la prima curva - racconta a Sky - oggi ho detto 'vado all'interno, la fermo e giro stretto'. Avevo passo oggi, mi trovavo bene. Alla fine quando ho rallentato un po' mi sono forzato per tornare a girare in ventuno per evitare di deconcentrarmi. Ho sempre cercato di tenere un equilibrio in questa gara, non ho mai provato a fare mezzo secondo di gap in un giro, ma di costruire il mio vantaggio decimo su decimo. Poi alla fine si è trattato di gestire con un passo che mi faceva sentire comodo. Quando non andavo forte mi sembrava di rischiare di più rispetto a quando spingevo". Quest'ultima frase la dice lunga sulla padronanza che Marquez ha di questa MotoGP. Tiene tutti in bilico sulle sue mani, dirige l'azione in pista a suo piacimento, maneggia lo spettacolo secondo le sue lune. Ieri era annoiato, aveva voglia di divertirsi e di divertire: si è inventato un rimonta sotto l'acqua che non aveva bisogno di esistere. Oggi non aveva tutta questa voglia di giocare con gli altri: se n'è andato via, lentamente, inesorabilmente. Sembrava alla portata di Di Giannantonio e Bezzecchi nei primi giri e, invece, pochi minuti dopo, era già scomparso. Lontano e inarrivabile sui sentieri della foresta sassone, dove sa orientarsi ad occhi chiusi.
La tredicesima vittoria su queste strade l'ha costruita come le altre dodici (successi nella cilindrate inferiori e nella Sprint di ieri comprese): nelle curve a sinistra. Ma dai? In particolare quelle del terzo settore, una successione di pieghe mancine progressivamente più spigolose in uscita. Lì, appena spingeva, Marc Marquez rifilava almeno tre decimi di gap al resto della compagnia cantante. "La otto, la nove e la dieci - spiega nel post gara - sono una sequenza di curve che mi piacciono molto. La undici invece non mi piace, penso non piaccia a nessun pilota (è la destra che immette nel discesone, ndr). Lì mi tenevo un po' di margine, ma normalmente qui faccio la differenza nel T3 e nel T4, perché nei primi due settori la pista è stretta e devi solo stare in traiettoria, non puoi fare niente di diverso".
Viene da chiedersi se qualcuno su questo pianeta riuscirà mai a scardinare lo strapotere del 93 al Sachsenring, che su cinque curve a sinistra (quelle nei primi due settori, per sua stessa ammissione, si percorrono sui binari) ha costruito un impero. Un impero che continua ad espandersi, che incrementa i sudditi, che non ha bisogno di chissà quale propaganda. In cima, sullla torre di un castello medievale della Sassonia, c'è Marc Marquez. Guarda tutti dall'alto in basso. Sorride. Si tiene stretti i suoi segreti.
