Nel mondo dello sport professionistico, poche cose bruciano più di un’accusa di doping. Anche quando l’accusa è, tecnicamente, un fraintendimento. Anche quando chi l’ha mossa ammette di non aver mai sospettato un intento fraudolento. Anche quando il colpevole – perché nel sistema dell’antidoping si è colpevoli fino a prova contraria – è un atleta che per etica e correttezza sportiva ha sempre dato lezioni a tutti. Il caso Jannik Sinner, che ha sconvolto il tennis mondiale, non è solo un’anomalia: è la dimostrazione che la giustizia, anche quando si applica secondo le regole, può lasciare una scia di amarezza e interrogativi.
La Wada assolve… ma punisce
A mettere un primo punto fermo nella vicenda è stata la stessa Agenzia Mondiale Antidoping (Wada), che ha fatto chiarezza sulla sospensione di tre mesi inflitta al numero uno del mondo dopo la positività al Clostebol: "Era un caso lontano un milione di miglia dal doping", ha dichiarato alla Bbc il consigliere generale Ross Wenzel, specificando che non si è trattato nemmeno di microdosaggio volontario.
Ma se non era doping, perché la squalifica? La Wada risponde con un principio tanto ferreo quanto spietato: la responsabilità oggettiva. Un atleta è sempre colpevole di ciò che entra nel suo corpo, indipendentemente dall’intenzionalità. Un principio che, a rigor di logica, dovrebbe servire a proteggere lo sport, ma che in casi come questo sembra punire più per prassi che per giustizia. E infatti, come ha osservato lo stesso Wenzel, il caso ha diviso l’opinione pubblica tra chi considera la sanzione eccessiva e chi, al contrario, troppo indulgente: "Forse è un’indicazione che, anche se non metterà d’accordo tutti, era adeguata". Adeguata per chi? E soprattutto: una punizione che non convince nessuno può davvero definirsi giusta?
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Il dilemma del patteggiamento
Dietro la decisione di accettare l’accordo con la Wada, c’è stato un lungo braccio di ferro. Jannik Sinner, nonostante la sua educazione al fair play e alla disciplina, non era convinto di chiudere la partita con un patteggiamento. Lo ha rivelato il suo legale Jamie Singer in un’intervista a Sky News: "Ci è voluto un po’ di tempo per convincere Sinner che era la cosa giusta da fare."
E come dargli torto? Accettare il compromesso significava ammettere, almeno formalmente, una colpa inesistente. Dall’altra parte, il rischio era affrontare un processo davanti al Tas (Tribunale Arbitrale dello Sport), con tempi lunghi e un esito non garantito. Alla fine ha prevalso la logica del danno minore: tre mesi fuori, poi di nuovo in campo.
Ma se per Sinner è stato un boccone amaro, per gli altri tennisti il caso è diventato un’opportunità per cannibalizzare il caso. Jamie Singer lo dice chiaramente: "Penso che i tennisti siano sempre falchi quando è un altro giocatore a essere coinvolto in una situazione simile e cercano di nascondersi quando sono invece loro a essere coinvolti".
Sinner ha accettato comunque il verdetto con la solita compostezza, e non ha risposto alle molte critiche. Ma l’avvocato Singer ha ammesso che l’azzurro si sente trattato con durezza: "Jannik dice di sentirsi trattato in modo piuttosto duro, ma accetta che ognuno abbia diritto alla propria opinione". Un commento che tradisce il disagio di chi si trova a essere giudicato da chi non conosce tutti i dettagli della vicenda, oppure li conosce e li accantona per attaccare strumentalmente. Un giudizio sommario che pesa, perché in un mondo in cui la reputazione si costruisce con fatica e si distrugge in un attimo, il danno d’immagine può essere più grave della sanzione stessa.
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Il ritorno in campo e le ombre che restano
La sospensione di Sinner terminerà il 4 maggio, in tempo per giocare gli Internazionali Bnl d’Italia a Roma e il Roland Garros. Quando tornerà in campo, il mondo lo guarderà con occhi diversi, in molti casi forse con sospetto per una vicenda mai del tutto chiarita.
Ma se c’è una cosa che questa storia insegna, è che il confine tra giustizia e opportunismo è sempre sottile. Se Sinner ha davvero commesso un’infrazione, perché la Wada stessa ha detto che il suo caso era "lontano un milione di miglia dal doping"? E se non l’ha commessa, perché è stato punito? Quel che è certo è che il tennis è stato privato per vari mesi del suo giocatore più forte e che molti, quasi tutti, non hanno capito davvero il motivo. E così, mentre la Wada si difende spiegando che la squalifica non è stata pensata per "salvaguardare il calendario tennistico" ma solo per riflettere la gravità del caso, a molti resta l’impressione che la vera priorità fosse chiudere la vicenda nel modo più rapido e meno controverso possibile. Ha funzionato? Mah…