Jannik Sinner è lì, a Shanghai, dopo aver ottenuto il suo settimo trofeo stagionale, un Masters 1000 che consacra il suo predominio nel tennis di oggi (Alcaraz permettendo, ma sta permettendo). Ha appena sconfitto Novak Djokovic, ancora una volta. Non una, non due, ma tre volte consecutive ha battuto il serbo, e ogni volta con la stessa determinazione, lo stesso controllo impeccabile, come una lama tagliente che non perde mai il filo. Eppure, sul suo volto, nessun segno di esultanza. È una strana forma di vittoria, quella di Jannik: una vittoria che non esplode, non divampa, ma resta lì, compressa, quasi trattenuta, come un urlo che non esce. Non esce quasi neppure un respiro.
Paolo Bertolucci al microfono di Sky ci scherza sopra, lancia la sua battuta “No trips for cats” (letteralmente sarebbe “tripe for cats”, pronunciato “traip”, traslando in inglese “non c’è trippa per gatti”). E in telecronaca spunta il paragone (per contrasto) con Valentino Rossi e Alberto Tomba. Ma Sinner non è quel tipo di campione che si lascia andare, che rende la vittoria una festa collettiva. Sinner è diverso, più introverso, quasi monastico nella sua devozione al tennis. Ma, ci si chiede, questa volta, oltre al suo carattere riservato, c’è qualcos’altro? C’è l’ombra del caso doping, il Clostebol, con il ricorso della Wada. Una nuvola che incombe su di lui, minacciando non solo di rovinargli la festa, ma anche di mettere a rischio una carriera ancora così giovane e che pure ha già toccato ogni apice.
Forse quella mancanza di un sorriso ha una radice contingente più profonda, non legata solo al carattere? Forse dietro la sua precisione chirurgica sul campo c’è la consapevolezza di un pericolo imminente, di una battaglia che non si combatte solo a colpi di dritti e rovesci e servizi, ma nelle aule dei tribunali sportivi? Quel che è certo e che per ora in Jannik non c’è spazio per la gioia, per l’euforia. C’è solo la vittoria, asciutta, nuda, spietata, senza fronzoli. Ed è anche la sua forza. Jannik non è lì per far divertire il pubblico, non è lì per esibirsi. È lì per vincere, stop. A differenza di quei campioni che facevano della loro energia e del loro carisma un tratto distintivo (e che non erano certo altoatesini come tipizzazione, non necessariamente un dettaglio), Sinner vince in silenzio, senza far rumore. Fa parte di lui, ma forse fa parte anche del momento. Cosa significa vincere, quando sai che tutto potrebbe crollare da un momento all’altro, quando temi che ogni trofeo già vinto potrebbe essere messo in discussione? Jannik ha già detto che è un periodo difficile, che ci sono cose fuori dal suo controllo. Non gli resta che continuare a giocare, a fare quello che sai fare meglio, sperando che alla fine tutto si risolva. Ma, soprattutto ora, non dovremmo pretendere che si lasci andare a grandi celebrazioni. O sì?