Il mio rapporto con gli energy drink è legato in modo particolare all’Australia. Tanto per essere chiari: in Australia la Monster è cultura. Lì, guidando un enorme trattore tra i filari nel Queensland, puoi guadagnare un sacco di soldi se sei disposto a farti il culo per dodici o quattordici ore, con temperature che vanno dai dieci gradi la mattina ai quaranta del pomeriggio. È il 2012, nella fattoria in cui vivo e lavoro con una ragazza e un amico un gruppo di indiani mi insegna a fare il chai, una bevanda che si ottiene mescolando tè nero e spezie al latte caldo. Ogni sera ne preparo circa un litro, lo metto in frigorifero e la mattina lo porto con me. Fresco, forte. Cominci a berlo alle sei di mattina e per le otto è finito, mentre il sole è venuto fuori e noi ci troviamo nel pieno della nostra operatività. A metà mattina l’unico obiettivo chiaro è resistere fino alla pausa pranzo, quando finivamo a mangiare fuori da una capanna in cui qualcuno aveva portato, con grande compassione, un fornetto a microonde. Sul menù passavano soprattutto delle clamorose torte di carne e del pane all’aglio da scongelare. Questo finché, per un eccesso di stanchezza, la carta stagnola dimenticata nel garlic bread provocò un piccolo incendio rendendo il microonde inservibile.
Se svegliarsi alle cinque di mattina per salire su di un trattore è tutto sommato sopportabile, farlo sotto il sole australiano allo zenith cercando di digerire i surgelati di Whoolworths richiede un impegno maggiore. Ecco perché dopo la prima mezz’ora aprivamo le Monster. Ognuno la sua, da mezzo litro, fredda da frigo, accompagnata con una sigaretta perché era quasi come la birra che, invece, era vietata per la reazione tossica che avrebbe scatenato nell’organismo in combinazione coi pesticidi con cui lavoravamo. Sta di fatto che in quel modo, con la lattina, il momento più duro della giornata diventava invece il più piacevole, scorrevole come la scena di un film in cui tutto succede a velocità tripla con la musica in sottofondo.
A fine giornata ognuno tornava nel suo piccolo bungalow di cinque metri per tre. Lì fuori, vicino alla porta, ci tenevamo le nostre scorte di Monster, che si compravano in cartoni da quattro. Ce n’erano di ogni sorta e, se le avevi finite, potevi sempre chiederne un paio a qualcuno fino alla successiva trasferta al supermercato, a 15 chilometri dalla fattoria.
È importante segnalare che questo lunghissimo attacco è stato scritto in una stanza d’hotel vicino a Pietramurata (Trento) durante il campionato mondiale motocross, tracannando una Monster Energy Zero Sugar appena presentata per il mercato italiano.
A proporci questo appuntamento è Matteo Papini, che segue il marketing e la comunicazione di Monster. Matteo Papini: trentacinque anni, meno di trenta a vista, uno e ottanta, settanta chili. Per anni ha fatto il pilota di motocross e ora corre in bici, a guardarlo di fretta sembra la versione made by Wes Anderson di Noyz Narcos. Di corse sa un casino di roba, ascolta molto, non perde tempo, ha una voce gentile e il talento raro di rispondere in maniera interessante a domande di qualunque genere. In definitiva è uno che aggiunge.Il programma è sintetico: vieni venerdì a Torbole, c’è una festa alla Spiaggia degli Ulivi in cui presenteremo la Zero Sugar. Sabato e domenica ve la godete in pista. L’ultima volta a vedere la MXGP in Trentino c’ero stato nel 2018, mentre la prima nel 2016 per il Motocross delle Nazioni. Andare a vedere le moto è sempre una buona idea, senza contare che tornarci dopo anni passati a rincorrere la MotoGP fa un effetto diverso. Specialmente perché è durante la festa davanti al porticciolo di Torbole che comincia la bella stagione, sembra un anticipo d’estate: tavoli fuori, cocktail a base Monster, un gran numero di invitati, l’aria del lago. Inutile dire che i drink mescolati a questo propulsore energetico funzionano molto bene, specialmente per arrivare a fine serata.
La Monster Zero Sugar ha un sapore meno marcato, forse è anche meno frizzante. Pare più leggera, batte meno allo stomaco, si mescola meglio e scende giù più in fretta della versione standard. Per il resto è esattamente come lei, la lattina nera con l’artiglio verde. C’è questo tizio, un fan del brand vestito come uno skater californiano, che mi spiega la differenza tra i vari gusti e come andrebbero scelti ed eventualmente mescolati per far funzionare tutto. Dice che la Zero è la più versatile per la miscelazione. La nottata finisce tardi, anzi è quasi mattina: forse è un modo per farci testare l’efficacia del prodotto.
I mostri del mondiale motocross
Ciò che è ovvio: Monster Energy ha scelto bene quale campionato da rappresentare. Non farebbero questi numeri se fossero degli stupidi. Hanno scelto di rappresentare la MXGP perché qui i piloti sono mostri veri, cosa di cui ti accorgi capendo che tutti lo fanno solo perché ne hanno voglia. I soldi? Dopo. La carriera? Figurarsi. Qui, ed è il mondiale, se non stai nei primi dieci dopo un paio d’anni non conti niente, oltre al fatto che tendenzialmente le belle auto fuori dal paddock sono di chi è andato a vedere la gara e non dei piloti. Questo è uno sport violento, umano, crudo, puro. Ricorda il rugby, eppure è qualcosa che va oltre al fango, al sacrificio e al dolore, semmai lo ricorda perché la spinta che ti serve per fare una cosa del genere ti esce dal profondo, è una necessità. Mai per vantarsi, per scopare o per gli altri, o almeno non prima del resto. Di compromessi ne fanno pochi. Quando li vedi per aria e ti sembra che stiano facendo il segno della croce per atterrare con le ruote e non con la faccia, per esempio, in realtà si stanno solo levando il tear-off per ripulire la mascherina: quei venti metri di salto li usano per riposarsi.
Tutto intorno, l’atmosfera è quella di un mercato orientale in cui regnano il caos, il pericolo e gli ottimi affari, specialmente se ti piace questa roba e vedi i piloti girare in mezzo al pubblico con le moto da gara. Gente che ha attaccato carretti alle pitbike per trasportare le gomme. Urla, casino. La cosa che mi strega ogni volta è la postura di un pilota sulla moto quando viaggia a passo d’uomo. In quel momento il pilota ha un’autorevolezza spaventosa, si eleva sulla gente e passa come un semidio in mezzo a un pubblico assolato e con gli occhi sbarrati. Questo è ciò che può capitarti di trasmettere quando sei nel tuo, a fare la tua cosa, quella che ti riesce meglio di tutte le altre. Per il resto i crossisti sono dei mostri con la schiuma alla bocca, gente che butta benzina in testa a un pistone per farlo volare.
Ok, ma come è fatta una moto da mondiale
Siamo un gruppo di una decina di giornalisti, ci sono anche un tatuatore, degli youtuber e altra gente di cui non so nulla. Tra una cosa e l’altra Matteo ci consegna a Federica Bizzi che, finita una lunga carriera da ombrellina Monster - anche in MotoGP - fa da guida turistica nel paddock del mondiale agli ignari come noi. È brava, appassionata, parla bene e soprattutto ci porta in giro, raccontandoci l’atmosfera del paddock e una lunga serie di curiosità. Ci dice, per esempio, che in Kawasaki sono gli unici a non mostrare il box ai fan, che invece possono affacciarsi a vedere il lavoro di buona parte delle squadre. Federica ci porta all’interno del box Yamaha Factory che, per l’occasione, si è presentata con una livrea anni Novanta, una piccola opera d’arte che in Yamaha dovrebbero pensare a produrre almeno in serie limitata. Il retrobox di ogni pilota consiste in un angolo grande quanto un box doccia su cui è stata messa una sedia da regista e un tavolino da campeggio, i piloti sono tre e hanno un angolo a testa. Il che è impressionante perché i piloti, di qualunque categoria, siamo abituati a vederli divini, plastici. Questi invece - che, è bene ricordarlo, corrono nel mondiale per una squadra ufficiale - hanno un paio di scarpe da ginnastica, gli integratori e un cambio pulito. Così senza grossa fantasia ti ritrovi a fare i conti con il lato più umano di questi ragazzi, anche se quello che vedi, di fatto, è lo spogliatoio di un uomo che va in guerra.
Le moto invece, queste moto, sono pezzi di metallo erotico, è come se ti chiamassero. Mentre quelle da pista sembrano sempre troppo altolocate e raffinate, queste così primordiali e belle assieme sembrano più divertenti, più godibili. Bello poi vedere che alcuni cablaggi sono fissati al telaio con le fascette nere che ogni motociclista usa a casa.
Chiedo a Matteo come funziona una moto da mondiale, a partire dalla gestione elettronica che pè sempre un grande punto di domanda. I dati ci sono e vengono scaricati, eppure rispetto alla velocità è tutto diverso. Punto primo: qui il grosso limite è il pilota che tutti i cavalli della moto non li può sfruttare, così quello che cercano di fare i tecnici è rendere il mezzo il più sfruttabile possibile senza perdere neanche un po’ di prestazione. Punto secondo: puoi mettere tutti i sensori che vuoi, ma la moto è un piccolo demonio che salta, vibra sbatte, scuote. Così tutta quella tecnologia finirebbe per rincoglionirsi, anche perché ad ogni giro la traiettoria diventa diversa e la velocità può variare a seconda di come affronti il terreno. Quello che non cambia mai, spiega Matteo, è il distacco: se prendi un secondo al giro qui, in una pista terrosa con determinate caratteristiche, incredibilmente prenderai un secondo anche su di un circuito sabbioso e dal disegno completamente differente. Gli dico che rispetto a una MotoGP sembrano più gestibili, che verrebbe voglia di salirci. Lui ride: “E invece sai che sono ingovernabili? Non riesci a usarla una moto così”. Il motore è intrattabile, le sospensioni così dure da sembrare saldate. Se ci provi finisci a tenere buona una moto che non gira e che tenta di farti volare per terra. Quindi sì, sembrano più abbordabili ma non è vero per niente.
Giorni selvaggi
Finito il circo si torna in hotel una mezz’ora, poi di nuovo a fare serata: ecco, buttare giù una lattina prima e un’altra poi è un ottimo modo per salvare la reputazione. Il motocross è crudo, vero. Viverlo è un’esperienza universale perché il gesto atletico, il coraggio e il brivido lo possono capire tutti con uno sguardo appena. Monster è benzina ad alti ottani per la gente che vive così, alla Franco Califano, uno che le cose le spiegava con grande delicatezza. “Sono stato sveglio cinque minuti in più degli altri per avere cinque minuti in più da raccontare”, diceva.
E quasi sempre ne è valsa la pena.