“Non vado a Jerez per correre, vado per vincere”. Chi l’ha detto? No, non Quartararo, né Vinales o Dovizioso. L’ha detto l’unico tra tutti quelli che sono scesi in pista ad essersi fratturato un braccio, domenica scorsa. L’ha detto Marc Marquez. Una determinazione incredibile, un’aggressività (agonistica) incontenibile, una sete di dimostrare quanto e quale sia il suo valore che non conosce un equivalente in un altro pilota. Ma perché tutto questo bisogno di affrettare un rientro che, dopo tutto, poteva essere ragionevolmente posticipato, senza che tutto fosse ancora compromesso? L’abbiamo detto su queste pagine: il campionato è corto, ma non così corto. Possiamo dire, infatti, con un buon margine di sicurezza che, verosimilmente, uno o più zeri li faranno segnare anche i più diretti competitor di Marquez nella corsa al titolo. Sono le gare di moto, è normale. E, per inciso, è per questo che le affermazioni di Puig sul valore di questo campionato possono avere un senso, come già abbiamo sostenuto, in un’ottica generale, ma non hanno valore in merito al singolo infortunio - perché per vincerli, i campionati, bisogna arrivare in fondo alle gare.
Dicevamo, qual è il motivo? Stando alle statistiche non può essere neppure una mera rincorsa ai record in sé. Marquez è ancora giovanissimo e, diciamocelo chiaramente, il fatto che batta Valentino, nel numero di mondiali conquistati, è - con le prospettive attuali - nient’altro che una formalità, presto o tardi destinata a compiersi. Certo, più complicato raggiungere il vecchio Mino (Giacomo Agostini), il detentore delle chiavi della Storia del Motomondiale. Ma lui correva in più classi contemporaneamente, si sa, e i suoi numeri risentono inevitabilmente di questa possibilità oggi di fatto negata ai piloti contemporanei. E allora perché ostinarsi a salire in sella solo una settimana dopo l’intervento, con una placca nel braccio, rischiando di farsi male? Perché sottoporsi a questa scena, a metà tra uno psico thriller e un film di Rambo, questo momento, nella stanzetta dei medici, in cui tutti ti osservano, con il fiato sospeso, mentre fai delle flessioni, spingendo proprio su quel braccio lì, quello che solo sette giorni prima trattavi con tanta avveduta delicatezza? La mia personalissima impressione è che Marquez stia tanto deliberatamente, quanto inconsciamente, cercando l’impresa. Marquez non vuole correre contro i suoi avversari, Marquez corre (sempre) contro la Storia.
Marquez è consapevole del fatto che più o mento tutti i record sono alla sua portata. Li brama, certo, ma è alla affermazione di sé che ambisce, ogni giorno, in maniera spasmodica. Ricordate l’esultanza delirante mostrata nella vittoria a Misano dello scorso anno? Delle urla incontenibili che dicevano, ancora una volta: sono io il più forte, io, non lo vedete? Ecco, c’è sempre questa esigenza in lui. Affermarsi, emergere, spiccare. E quale grande impresa manca nel palmares di Marquez in questo momento? Ma certo, correre e, soprattutto, vincere, solo sette giorni dopo un grave infortunio. Non ci saranno più Valentino Rossi o Lorenzo che tengano. Nessuno avrà mai compiuto un’impresa del genere, se gli dovesse riuscire. È questa una delle poche dimostrazioni di superiorità che deve ancora esibire nella sua carriera ed è questo il motivo per cui la sua volontà di tornare saprà battere ogni dolore.