Non fosse stato per l’outing che porta la firma di Fabrizio Corona, prima sulle presunte scommesse di Nicolò Fagioli a inizio agosto (quando la Procura di Torino aveva già iniziato a lavorare sulle piattaforme illegali per il betting), quindi con le accuse nei confronti di Sandro Tonali e Nicolò Zaniolo, verrebbe da domandarsi quando il caso sarebbe venuto fuori, e in che modo, considerando la singolare coincidenza tra gli strilli su Dillinger News, l'indagine della Procura e i movimenti della Federcalcio. Quello relativo agli informatori, alla scelta dei nomi da fare uscire o meno, è però già un altro discorso, perché nuove puntate seguiranno e, come è opinione comune, del nuovo scandalo scommesse poco si sa, se non che sia solo all’inizio e che altri nomi verranno fuori. Posto che stavolta, a differenza di casi passati, non si parla di alterazione di risultati ma puramente di betting (e scommettere, per i tesserati del settore professionistico del calcio, è vietato: non ci sono santi) e peraltro attraverso puntate altissime su piattaforme illegali, oltre che in certi casi di vera e propria ludopatia, fa specie – o se non altro dovrebbe farlo – incontrare i nomi di ragazzi ai quali, nella vita, apparentemente non manca nulla: talento, denaro, riconoscibilità, visibilità. Ragazzi sui vent’anni che hanno ingaggi già sufficienti a garantirsi per la vita e che, per anagrafe, in prospettiva possono solo aumentare i propri guadagni. Insomma, come fanno a cascarci?
Il fenomeno della ludopatia
Secondo un’indagine pubblicata dall’Istituto Superiore di Sanità nel 2018, in Italia l’esperienza di gioco riguarda circa 18 milioni e mezzo di individui; di questi sono 5,1 milioni i giocatori abitudinari e, all’interno del sottoinsieme degli abitudinari, l’indagine riconosce 1,5 milioni di giocatori definiti problematici. Quelli, insomma, affetti da ludopatia, e attenzione: anche a livello sanitario, si tratta di una vera e propria dipendenza, di fatto una dipendenza comportamentale che viene considerata un fattore di rischio per la salute pubblica, al punto che lo stesso Iss ha, al suo interno, un Centro nazionale dipendenze e doping, e che le aziende sanitarie territoriali prevedono percorsi di uscita dalle dipendenze attraverso i propri servizi per le dipendenze patologiche (gli ex SerT). Insomma, una vera e propria malattia sociale. Il dilagare del gioco d’azzardo è favorito anche dalla facilità e dall’anonimato derivati dalla modalità online. Il giorno in cui uscì la notizia dell’indagine su Fagioli, il quotidiano Avvenire ha ospitato l’opinione di Tiberio Patrizi, presidente dell’associazione laziale No Game, attiva nei percorsi di aiuto alle persone affette da ludopatia, illuminante per comprendere il mutamento generazionale dei profili problematici: “Quando siamo nati come associazione, nel 2015, la fascia d’età più problematica era quella dei 40-50enni i cui problemi derivavano dalle vlt, le macchinette videolottery. Oggi questo profilo resiste ma in misura molto minore, mentre al contrario la stragrande maggioranza delle richieste di aiuto che riceviamo riguarda pensionati e, purtroppo, ragazzi tra i 18 e i 25 anni. Ed è una piaga difficile da fermare; non c’è nemmeno lo stigma del puntare recandosi in un luogo fisico, qui basta uno smartphone: con le app si può scommettere su tutto, immediatamente, a qualsiasi ora e per qualsiasi evento in ogni parte del mondo”.
Ok, ma perché ci cascano i calciatori?
Il meccanismo, a quel punto, è comune. Si punta, si perde, si entra nel circolo vizioso di dover recuperare il denaro, si punta sempre di più e sempre di più si perde. Quando poi si entra in circuiti nei quali a coprire le perdite entrano, magari, usurai o malavitosi in genere, non c’è quasi più possibilità di redenzione, soprattutto quando il profilo, appunto anche secondo le linee guida della sanità, diventa quello del giocatore dipendente, del malato. Qui però si torna al punto iniziale: ai drammi di chi si rovina non avendo nulla si accompagnano le scelleratezze dei divi del nostro tempo, quelli che apparentemente non avrebbero motivi per cascarci, i calciatori che tutto hanno. E invece ci cascano eccome. Perché hanno una disponibilità economica che li rende facili prede di piazzisti e delinquenti, perché hanno tempo da perdere sugli smartphone, perché ignorano i rischi in chiave carriera, perché tante volte sono circondati di personaggi quantomeno equivoci e, magari, non sono supportati da una rete relazionale particolarmente attenta. Inutile fingere: chiunque abbia frequentato i dintorni dei centri sportivi delle squadre di Serie A o abbia avuto modo di conoscere certe frequentazioni, è venuto a contatto con personaggi che, in un ambiente protetto, non avrebbero cittadinanza.
Per Buffon era “una trasgressione”
Gigi Buffon, ora team manager della Nazionale, alcuni anni fa, in un paio di interviste, spiegò bene i motivi per i quali scommetteva cifre rilevanti – sebbene mai sul calcio – e nelle sue parole si percepisce la sottovalutazione del problema sociale. Così a Dario Cresto Dina di Repubblica nel 2014: “Le scommesse… è capitato anche questo. Ma sono ben lontano da come sono stato descritto, non ho compagni segreti a bordo della mia nave. Il gioco ha sempre rappresentato e continuerà a rappresentare un piacere, un piacere e uno svago. Purtroppo, in Italia non si vive con serenità questo tipo di attività e il concetto di gioco d’azzardo rimane tabù. Si preferisce l’associazione triangolare gioco-dipendenza-rovina. Per me è più dipendente chi spende solo mille euro ma regala alla dea bendata dieci o dodici ore al giorno del suo tempo piuttosto di uno come me che può rischiare di perdere centomila euro alla volta, ma dedica al gioco una sera ogni due mesi. Siamo un paese democraticamente giovane, ma bigotto e bacchettone con il vizio del luogo comune”. Così, invece, nel 2022 alla Gazzetta dello Sport: “Se ho scommesso, e mai sulle partite, è stato perché chi vive la nostra vita deve trovare una trasgressione. Io non vado in discoteca, non ho mai fatto uso di droghe, ho sempre avuto solo una donna. Scommettevo, ma quelli sono fatti miei”.
Azzardo, non combine
Rispetto agli scandali del passato, dall’inchiesta Last Bet del 2012 sino a risalire al Totonero anni Ottanta, la differenza sostanziale è che qui non si parla di combine, ma solo di azzardo. Appunto, la trasgressione, e il tema relativo all’abbassamento dell’età media dei giocatori problematici in questo senso può essere confermato anche dai calciatori che sono già entrati ed entreranno nella vicenda. Loro e quelli che non verranno toccati pur essendo coinvolti, perché non tutte le Procure indagano e l’iceberg è destinato a rimanere sommerso. Esiste, insomma, anche un aspetto generazionale: la trasgressione per i calciatori non più il sesso e non sono più le discoteche sino a mattina, ormai normalizzate e neppure troppo scandalose, non sono certo non le droghe (perché sarebbero troppo facili da scovare ai test antidoping), ma le scommesse sì. Perché il concetto è questo: hanno i soldi, non alterano i risultati e sono fatti loro. Sino a quando non vengono scoperti.