“Ex lavoratori della tv populista”. Sembra l’incipit di un comizio, o la parafrasi ironica della già caricaturale, celeberrima esclamazione albertosordesca (“lavoratoriiiii….!”). Invece i soggetti in questione non hanno niente da ridere, e con tale autodefinizione hanno firmato un libro, dal titolo secco e impietoso, “Caccia al nero”, nel quale hanno riassunto il dietro le quinte, ma in realtà anche il davanti di una delle svariate trasmissioni in cui l’informazione cede il posto alla demagogia. Uscito per Chiarelettere, si legge come il diario di un io collettivo che macina servizi che si rivelano servizietti, soffietti, marchette impudiche alla linea editoriale di un talkshow idealtipico della tv italiana, senza un nome preciso, dedito al pestaggio sistematico delle minoranze. La caccia al nero, appunto. All’immigrato, allo zingaro, al senzatetto, al percettore di reddito di cittadinanza. Abbiamo parlato con uno degli anonimi autori, di mestiere giornalista, uscito dall’esperienza traumatizzato ma con la meditata volontà di raccontare tutto quel che è lecito raccontare. Come un testimone che abbia fatto parte per un certo periodo della malavita.
Conoscendo l’ambiente vendicativo e meschino del giornalismo, viene subito da chiederti: ma chi te l’ha fatto fare? Certi personaggi del libro, pur coperti dalla scrittura anonima, in privato vi si riconosceranno comunque.
Certo che ci si riconosceranno. Ma abbiamo voluto far sapere come viene costruito un programma populista. Ho passato un anno in questa trasmissione, assieme non solo a giornalisti, ma anche a operatori e montatori che vedevano da dentro quel che succedeva. Per un anno mi sono profondamente vergognato di quel che facevo. Come tutti, ho preso questo lavoro per una motivazione economica, perché, come si sa, oggi fare i giornalisti è complicato, per via del precariato, degli stipendi bassissimi e via dicendo. Essendo l’editore del programma un grande gruppo privato, c’era un trattamento economico di tutto rispetto.
Tre volte e mezzo un metalmeccanico, scrivi.
Sì, c’è anche chi prende di più, ovviamente. Dipende poi dal contratto. Rispetto a quel che facevo prima, cioè il precario in un’altra televisione privata, venivo pagato di più e con stabilità, con un contratto a stagione. Io sono arrivato lì un po’ per caso, non sapevo di finire proprio in quella trasmissione, che tra l’altro avevo poco presente perché non l’avevo mai seguita. La conoscevo di fama come uno di quei programmi in cui si urla molto, in cui i servizi sono tutti finalizzati a colpire l’immigrazione, a fare del populismo. A fomentare la guerra fra poveri, alla fine, per convincere il pubblico medio che il nemico è l’immigrato, il rom. Mi è andato crescendo dentro un senso di vergogna che si è tradotto nel bisogno di raccontare come viene fatta l’informazione in quei posti. È importante che uno sappia cosa guarda, come viene costruito quel che è un vero e proprio spettacolo, in cui c’è una regìa, ci sono i buoni e i cattivi che vengono messi in contrapposizione secondo un copione ben preciso, per trasmettere un messaggio politico molto chiaro. È tutto finto.
Avete voluto, insomma, fare una sorta di reportage da insider su una tipologia definita di giornalismo: il giornalismo televisivo in talkshow di approfondimento, ma chiaramente di destra.
Ricordo un episodio riguardante l’amica di una mia fidanzata, una donna di sinistra come me. Dopo una cena assieme, uscendo a fumare una sigaretta, io parlai del lavoro che stavo facendo, e lei mi disse soltanto “vergognati”. Questo fu un momento catartico, che fece scattare qualcosa in me. L’unico modo in cui potevo riscattarmi agli occhi di me stesso era trasformare questa esperienza di collaborazionismo in una testimonianza. Se l’Italia è messa come sappiamo, è anche colpa di un giornalismo che ha perso la dignità e il senso della sua missione. Una missione che non dovrebbe essere bastonare i più deboli, ma semmai bastonare i potenti.
D’accordo. Ma avere una linea editoriale quale che sia è pur sempre legittimo. Com’è legittimo non condividerla e tirarne le conseguenze. Nel giornalismo è sempre stato così.
Non è questione di non condividere la linea. Tu puoi fare un giornale in cui racconti i fatti e poi metti le opinioni, però i fatti devono restare i fatti. Qui invece c’è il metodo di selezionarne solo alcuni, per esempio lo zingaro che deruba la vecchietta, fatto piccolissimo che poi isoli, ingigantisci e lo batti e ribatti. Bene: il fatto c’è stato, ma l’ottica è distorta. Oppure: una vox populi (in gergo, servizio con interviste a passanti in strada, ndr) in un quartiere di una città di provincia, in cui la tesi del pezzo, stabilita a priori, è dimostrare che ci sono immigrati che delinquono. Tu parli con 100 persone, di queste 100 ce ne sono due che confermano, prendi soltanto queste e le monti nel pezzo. Il risultato distorce la realtà. Questa è la prassi.
Il vecchio e spudorato giornalismo a tesi. Interessante è il come viene realizzato, le tecniche che assomigliano alla sceneggiatura di un film. Corretto?
Esatto. Le voci che non collimano, semplicemente non le inserisci. Stessa cosa avviene con la pre-selezione del pubblico: si sa già cosa dirà. Le dirette nelle piazze dovrebbero essere la voce della gente, in realtà le persone vengono scelte attentamente, provinate, poi dicono anche le cose che pensano, per carità, ma devono dirlo in modo efficace, funzionale al discorso. Un’altra tecnica è lo scontro fra la piazza e degli ospiti in studio che magari si sa già non essere in grado di difendersi, esponendoli al massacro televisivo. Un’altra ancora è mettere all’angolo l’unico ospite che difenda le ragioni, poniamo, dei nigeriani, o comunque della minoranza di volta in volta presa di mira.
C’è una corresponsabilità da parte dei cittadini urlanti o degli amministratori indignati scelti per i collegamenti? Sono consapevoli di partecipare a un teatrino?
Molti sono consapevoli, certo. Lo fanno per visibilità o per motivi che si possono immaginare. Chiaro che se tu imbecchi una persona, quella è più facilmente portata a dirti quel che vuoi sentirti dire. Ma il momento fondamentale è alla fine, nel montaggio: se uno ti parla per 50 minuti e tu salvi solo pochi minuti, stravolgi il senso, che magari non è quello che intendeva passare lui.
Fin qui tecnicamente c’è la manipolazione, che falsifica la realtà. Ma si cita anche l’invenzione, che invece crea una realtà che non esiste. Per esempio?
Per esempio prendendo la notizia di un immigrato che si schianta contro un palo nei pressi di una dogana, e supponendo che l’abbia fatto con la motivazione dell’attentato di matrice islamica. Aggiungendo al fatto, quindi, un’ipotesi del tutto arbitraria, e infatti respinta nello specifico dai carabinieri. Una modalità che però non viene applicata, che so, sull’imprenditore che poi ti denuncia, ma su un poveraccio che non c’ha niente e non ti farà mai causa per diffamazione.
E chi firma questo tipo di servizi china la testa ed esegue. Soffrendo solo nel proprio foro interiore.
Quasi tutti quelli che lavorano lì sono consapevoli di questa logica profondamente ingiusta e la pensano in modo opposto. Ma continuano, perché “è lavoro”. Lavorare diventa la giustificazione per tutto. In realtà c’è una responsabilità anche collettiva, che è del giornalista che ci mette la faccia, ma è anche degli autori e di tutti gli altri. Se di fronte a palesi falsificazioni ci fosse qualcuno che ci dicesse “no, questo non lo faccio”, la situazione andrebbe diversamente. Evidentemente è un problema strutturale. La nostra generazione viene da un precariato feroce, priva di una coscienza sindacale. Siamo tutti atomizzati. Cinquant’anni fa una condizione del genere sarebbe stata più difficile. Ancora si scioperava, ci si batteva. Oggi c’è un esercito di schiavi sottopagati a cui si può far fare di tutto. Posso citarti l’esempio clamoroso di quel giornalista che fu beccato a far recitare la parte di un terrorista islamico a un senzatetto, pagandolo. Che l’abbia fatto di sua spontanea volontà, all’oscuro della redazione, mi sembra difficile. La trasmissione gli scaricò la responsabilità addosso cacciandolo via, e lui non denunciò che la colpa, com’è evidente, non era solo sua. C’è questa impossibilità, insomma, di ribellarsi anche quando vieni tirato in mezzo. Figuriamoci nella normalità, diciamo così.
Pagare un povero cristo per inventarsi uno scoop è la punta dell’iceberg. Ma il dramma, scrivete nel vostro j’accuse, è l’iceberg sottostante, il famigerato così fan tutti. “L’onestà a volte bisogna imparare lasciarla a casa”, è l’agghiacciante frase di un dialogo emblematico con cui si chiude il libro. C’è un modo per rimanere onesti e continuare a lavorare?
Sì: rifiutarsi di fare certi pezzi. Io alcuni non li ho fatti. O toglievo la firma.
Diranno che è la vostra è la solita tirata tipica di “quelli di sinistra” che si sentono moralmente superiori, con la puzza al naso. Forse che non praticano anche i talk di sinistra l’informazione-spettacolo con tesi preconfezionate?
Più che puzza, dire fetore insopportabile. Questo tipo di trasmissione hanno successo, è indiscutibile. Perciò, secondo me, anche trasmissioni di area progressista hanno seguito l’onda, facendo una tv in cui si litiga, si lincia… Ma non a questi livelli.
Mi stai dicendo che a sinistra fanno infotainment schierato, ma lo fanno in modo più sofisticato?
Lo fanno in modo più timido. Certamente è un andazzo che va denunciato anche se succede a sinistra. Il giornalista, ripeto, deve partire dai fatti.
Ma proprio l’onestà intellettuale impone di ammettere che l’imparzialità non esiste: chiunque immette i propri giudizi e in certa misura i propri pregiudizi in quel che fa.
Certo, c’è sempre un taglio o una priorità che si dà alle notizie che in qualche misura le falsano. Ma la differenza la fa, appunto, l’onestà che anzitutto rispetta il fatto per com’è avvenuto. All’inizio del libro si fa un esempio che esemplifica bene questo concetto. Mi mandarono a fare un servizio in Sicilia su disoccupati che rifiutavano di farsi assumere come camionisti, preferendo il reddito di cittadinanza. L’obbiettivo era criminalizzare quest’ultimo. Così, anche se scoprii che semplicemente il motivo era che non potevano permettersi l’autoscuola per la patente, che era molto cara, uscì che c’erano questi che rinunciavano a una paga di ben 3 mila euro al mese per restare con il reddito di cittadinanza, che è molto inferiore. Assurdo. Prima dovrebbe venire il fatto, e solo poi si può opinare quanto si vuole. Il problema grosso che abbiamo in Italia, oggi - quello che poi fa vincere la Meloni - è che i lavoratori pensano che il nemico sia chi percepisce il reddito di cittadinanza, o gli immigrati.
I più efferati esecutori dell’infottenimento (copyright: Vitaliano Trevisan, pace all’anima sua) sembrano essere i mitici autori, non i giornalisti.
L’autore è più importante del giornalista, che si deve sottomettere alle sue esigenze di puro intrattenimento a scopo politico, con tantissime frasi a effetto e pochissimi contenuti sostanziali, con una musica ritmata e violenta (“tensiva”) e con i titoletti nei banner che sono delle sentenze brutalmente semplificatorie. Agli autori non interessa niente della storia di per sé, anche avendo magari trovato una chiave di lettura inedita e originale. A loro importa soltanto che il prodotto finale si adegui allo schema. Neanche uno scoop li avrebbe smossi.
Umanamente parlando, hai mai provato empatia per questi “mostri”?
Mi facevano una grande tenerezza, perché non è il singolo, il problema di fondo. È il sistema in cui finisci che ti induce a diventare così. Persone veramente convinte ne ho conosciute davvero pochissime. È una metafora del mondo di oggi, se ci pensi: ognuno fa il suo e basta, guardando solo al proprio portafoglio, e lascia che il mondo vada sempre peggio.