Dagli Stati Uniti soffia un vento di crisi (economica) che potrebbe presto arrivare anche in Europa. Il dollaro è sotto pressione e Washington si trova a fare i conti con un mondo in continua trasformazione. I Paesi in via di sviluppo stanno creando i loro sistemi di pagamento transfrontalieri, mentre la Cina ha smesso di acquistare i Titoli di Stato americani. Nel frattempo, alle nostre latitudini il prezzo dell'energia – gas ma non solo - continua a crescere. Il governo Meloni, intanto, non sta giocando al meglio le sue carte, sia sul fronte della politica economica che in quella estera. Ne abbiamo parlato con Giacomo Gabellini, saggista e analista geopolitico, che affronterà il tema in questione, in maniera approfondita, in occasione del Secondo seminario sui contributi della Cina nelle relazioni internazionali, in programma a Roma il prossimo 3 ottobre.
Partiamo dagli Stati Uniti. A pochi mesi dalle elezioni presidenziali può essere utile analizzare l'economia di questo Paese. Anche perché tutto ciò che accade a Wall Street e dintorni ha ricadute nel resto dell'Occidente. E dunque: come stanno gli Usa?
Serve subito una premessa. Se esistono alcuni Paesi che accumulano avanzi commerciali molto consistenti e prolungati nel tempo, come la Cina e la Germania attraverso l'export di merci o l'Arabia Saudita con quello di materie prime, e qualcun'altro che invece accumula deficit, ecco: tutto questo ha ricadute considerevoli sul tessuto economico internazionale. Un disavanzo strutturale nella bilancia dei pagamenti è un aspetto che caratterizza un Paese che si è deindustrializzato. Questo è proprio il caso degli Usa, che hanno una bilancia commerciale negativa per cifre gigantesche per almeno due ragioni.
Quali?
Intanto perché importano tutto ciò di cui hanno bisogno, e poi perché hanno scelto di specializzarsi, a partire dalla seconda metà degli anni '70, soprattutto nel settore avanzato terziato. Gli Usa hanno un'economia trainata dai servizi, alimentata dal ruolo dollaro e che importa merci e prodotti dando in cambio banconote che, di fatto, non richiedono a Washington alcuno sforzo per essere emesse.
E dunque?
Come conseguenza, questo ha portato alla scomparsa di posti di lavoro di qualità nel Paese, perché il citato settore terziario non è in grado di assorbire una massa di lavoro smisurata. Assistiamo, in definitiva, alla proliferazione della cosiddetta gig economy, l'economia di espedienti. Possiamo dire che, quando una nazione si reindustrializza, deve fare i conti con un declino economico che si traduce anche sul piano geopolitico. Se il Pentagono, nel 2018, spiega che una quota oscillante tra il 40 e l'85% dei sistemi d'arma statunitensi proviene dalla Cina (considerato da Washington un rivale sistemico ndr), allora significa che gli Usa sono alla frutta.
L'epicentro della prossima crisi economica mondiale potrebbe arrivare dagli Stati Uniti?
Indubbiamente sì. Nel 2008, ricordiamolo, ci fu la crisi dei debiti subprime. Gli Stati Uniti cercarono di alimentare una crescita drogata dal settore immobiliare. Le banche americane erogavano prestiti a contraenti che non avevano requisiti per potersi permettere prezzi di quel genere, perché tanto “cartellizzavano” tutto, e rifilavano questi prodotti ad altissimo rischio a ignari clienti risparmiatori. Sia negli Usa che in giro per il mondo. Adesso, dal 2008, la Federal Reserve (la banca centrale statunitense ndr) ha abbassato i tassi di interesse, che a loro volta hanno espanso in maniera enorme il bilancio della stessa banca centrale.
Non dovrebbe essere un aspetto positivo?
Peccato che tutta questa liquidità immessa nel sistema statunitense non si sia tradotta in investimenti pubblici, nuove infrastrutture, ricerca, sviluppo, bensì nell'acquisto di azioni in Borsa. I listini di Wall Street sono cresciuti in maniera immotivata.
Che cosa intende?
Non sono cresciuti perché, per esempio, Apple ha immesso sul mercato prodotti altamente innovativi da giustificare una crescita del genere. Semplicemente, in giro c'era un'enorme liquidità e la cosa più rapida e sicura, nonché più remunerativa nel breve periodo per i “ricchi”, consisteva nell'investire nei titoli borsistici.
Insomma, chi aveva soldi li ha investiti in Borsa, senza portare sviluppo al Paese.
Esatto. Hanno incrementato in maniera abominevole la sommità della piramide sociale. Ma questo non si è tradotto in crescita reale del Paese, che poi ha scontato una ricaduta in termini di lavoro e benessere. Abbiamo visto che si è creata una categoria di ricchi da far spavento: un singolo privato come Elon Musk o Jeff Bezos può costruirsi autonomamente delle astronavi. Ma è un gioco a somma zero. Perché quando le prime 5 società tecnologiche valgono come il pil di tutto o mezzo Occidente, vuol dire che qualcosa non va. Tra l'altro, aziende del genere sono tutte “partecipate” dalla triade dei grandi fondi di investimento: Blackrock, Vanguard e State Street Global.
Gli stessi fondi che hanno fatto shopping anche in Europa e Italia?
A proposito dell'Italia. Non molto tempo fa, il Corriere della Sera, nelle pagine economiche, ha fatto un'intervista abbastanza prona a Larry Fink, amministratore delegato di Blackrock. Questo fondo punta in maniera palese al risparmio europeo, e italiano nella fattispecie. L'Italia è infatti uno dei Paesi che vanta uno dei più alti indici di risparmio al mondo, e la gestione patrimoniale di quel risparmio, per Blackrock, sarebbe una vera e propria cuccagna. Fondi simili hanno interesse nel promuovere lo smantellamento del welfare pubblico, la finanziarizzazione del risparmio, oltre che a costringere le persone a spendere per usufruire di servizi altrimenti gratuiti e a corrodere il loro risparmio. Privatizzano e creano un nuovo mercato.
La probabile, nuova crisi potrebbe arrivare dagli Usa e avere queste caratteristiche. Sarebbe una crisi silenziosa a differenza di quanto visto nel passato...
Il problema è un altro, che si intreccia con fattori geopolitici. Gli Usa hanno una posizione deficitaria pazzesca con l'estero, quindi hanno necessità di importare capitale da fuori. Come fanno? In diversi modi: uno dei più semplici consiste nell'alzare i tassi di interesse. Questo abbatte il prezzo dei titoli di Stato statunitensi e ne aumenta la redditività rendendoli appetibili. Allo stesso tempo, questo modus operandi comporta un esborso impegnativo per il bilancio federale. Se nessuno compra più i Titoli di Stato, ma gli Stati Uniti devono continuare ad indebitarsi con l'estero per mantenere elevati livelli di consumo, Washington può: o scatenare crisi in giro per il mondo, così da far apparire se stesso come l'unico porto sicuro nel quale investire (e favorire così fughe di capitali dal resto del pianeta), oppure alzare i tassi di interesse. Sia chiaro che le cose possono essere portate avanti parallelamente. C'è un altro fenomeno da menzionare: prima della pandemia il 43-44% delle emissioni del debito pubblico Usa era in mano a banche centrali straniere, molte asiatiche; oggi la quota è scesa a circa il 30-32%, a fronte di emissioni quadruplicate. Questo significa che un numero crescente di Paesi sta cercando di diversificare i propri investimenti allontanandosi dal dollaro.
Abbiamo parlato degli Usa, ma il dollaro come sta?
Non bene. Spesso però non siamo in grado di vedere i fenomeni storici in prospettiva, preferendo concentrarci sull'oggi. Prendiamo l'uso, o meglio l'abuso, delle sanzioni economiche da parte degli Usa: gli Stati Uniti hanno sfruttato la centralità del dollaro nel commercio internazionale per estromettere e costringere Paesi terzi o aziende ad allinearsi alla loro politica estera. In passato usavano questo strumento, le sanzioni appunto, con parsimonia. Poi, dopo la grande crisi e sotto la presidenza di Donald Trump, hanno iniziato a imporre sanzioni a chiunque. Provocando la nascita di un club di Paesi sanzionati che ha iniziato a predisporre strumenti, infrastrutture finanziarie e monetarie alternative a quelle tradizionali... I Brics, per esempio, si stanno creando il loro sistema di pagamento transfrontaliero. Uno dei sistemi più affinati e pericolosi per il dollaro si chiama mBridge: collega le valute digitali delle banche centrali dei Paesi aderenti. All'inizio ne facevano parte Hong Kong, Thailandia, Emirati Arabi Uniti e Cina, adesso anche l'Arabia Saudita.
Ha parlato della Cina.
Fino a non molti anni fa era il principale creditore Usa: comprava, in sostanza, parte considerevole dell'avanzo commerciale accumulato dagli Stati Uniti, acquistando Titoli di Stato americani. Poi, per motivi geopolitici e per diversificare gli interessi, la Cina ha iniziato prima a rinnovare i Titoli in scadenza poi a scaricarli. Adesso il Giappone ha sopravanzato la Repubblica Popolare Cinese nell'acquisto di debito statunitense, insieme a Taiwan, e agli alleati europei di Washington. Siamo in una situazione diversa. Ma non è finita qui, perché sono entrati in campo anche investitori non istituzionali: non più banche centrali straniere ma i grandi fondi d'investimento. Con una differenza: questi ultimi devono guadagnare, a differenza delle banche. Dunque, finché i tassi sono alti, loro sono ben felici di investire nel debito Usa (tra l'altro, i tassi elevati hanno provocato l'esplosione della spesa federale per interessi sul debito, che ha superato la spesa militare). Gli stessi Usa dovrebbero però abbassare i tassi, alleggerire l'onere sul bilancio federale, ma in quel caso il prezzo deperirebbe la redditività di quei Titoli...
Cosa dovrebbero fare gli Stati Uniti?
Il dollaro è sotto pressione. I conti pubblici Usa sono fuori controllo: il debito pubblico e federale macina e cresce trainato dall'esplosione dei pagamenti sul debito. Gli Stati Uniti hanno iniziato, per far sì che questo sia sostenibile, attirare industrie, portare la produzione reale sul loro territorio, ma non è semplice. Washington ha varato varie leggi per erogare sconti fiscali e sussidi a player strategici disposti a investire nel territorio statunitense, dove tra l'altro potrebbero godere del basso costo dell'energia, in particolare del gas (che in Europa costa molto di più).
A proposito di gas: perché aumenta tutto, dalla benzina al citato gas?
Ci sono due motivazioni. Una riguarda la speculazione. Per quanto riguarda il gas, prima lo acquistavamo attraverso gasdotti e con contratti a lungo termine che determinavano prezzi per lo più stabili. Questo modo di operare ha tenuto l'Europa in una situazione di sicurezza energetica e stabilità di prezzi per molto tempo. Si è poi deciso di aprire la Borsa di Amsterdam e di cambiare metodo di contrattazione. Di mettere, cioè, la Russia – nostro fornitore principale e strategico - in concorrenza con altri Paesi (Qatar, Australia, Usa...). Abbiamo quindi una Borsa con una propria offerta, e questo in alcune fasi può tradursi anche in un calo dei prezzi, ma quando ci sono tensioni geopolitiche i prezzi schizzano alle stelle, alimentati anche dalla speculazione sulle aspettative del loro andamento. Il risultato è un aumento enorme per i consumatori.
E l'altra ragione?
La disarticolazione delle catene di approvvigionamento. Le produzioni non avvengono più in un solo Paese. Con l'emergenza sanitaria e la guerra in Ucraina è cambiato tutto. Sempre parlando di gas, l'Europa è stata costretta a trovare alternative a Mosca: il gas americano, per esempio, ma il loro gas naturale viene estratto tramite fracking (altro che economia green e rispetto per l'ambiente: è una delle tecniche più distruttive dal punto di vista ambientale). Però quel gas viene liquefatto, trasportato su navi cisterna nell'Atlantico verso l'Europa e rigassificato in impianti non all'altezza. E cosa siamo costretti a fare? Continuiamo a esportare gas russo passando dalla Turchia (che ci fa la cresta), oppure paghiamo le penali ai grandi produttori affinché cambino le rotte delle loro petroliere dirette verso Paesi come Pakistan e Bangladesh che avevano già pagato carichi di gas. In sostanza, chiediamo loro di portare quei carichi in Occidente, pagando prezzi elevatissimi e danneggiando Paesi terzi.
Cosa sta facendo il governo italiano per tenere bassi i prezzi?
Ci sarebbero tante cose di politica industriale da fare. Lo Stato ha una golden share in Enel ed Eni, e avrebbe potuto avvalersene per cercare di condizionare certe scelte. Invece ha approfittato di questo per ottenere maggiori dividendi, senza portare benefici tangibili alla comunità. Il modus operandi si è tradotto in bollette che schizzano alle stelle e chiusura di attività energivore. All'avvicinarsi della stagione più fresca i prezzi dell'energia crescono e lo faranno anche a breve. Nel frattempo la Turchia ha sorpassato la Germania nella produzione dell'acciaio (un'attività molto energivora). Perché? Ankara importa gas russo a basso costo e ne approfitta per produrre acciaio, che è la chiave per qualsiasi produzione industriale degna di nota. Noi, intanto, ci deindustrializzamo e altri ne approfittano per fare i loro interessi (come è giusto che sia, dal loro punto di vista). Nel frattempo proseguiamo con le politiche green, non vogliamo il nucleare, rifiutiamo il gas russo e acquistiamo quello americano che costa di più.
Come viene vista l'Italia dal resto del mondo?
Geopoliticamente parlando, l'Italia è indubbiamente un “vassallo” degli Stati Uniti. Il punto è che l'Italia avrebbe le sue carte da giocare. Le faccio un esempio: dopo il colpo di stato in Niger, il governo locale ha cacciato i contingenti francesi e americani presenti nel Paese, ma ha tenuto gli italiani. È significativo perché l'Italia – sebbene abbia un passato coloniale, ma una parentesi piccolissima rispetto a Francia e Regno Unito – non è percepita come una potenza coloniale. Dovremmo tornare a guardare l'alveo che ci è più familiare e vicino: l'Africa in primis. Ma non con programmi inconsistenti come il Piano Mattei, perché il continente africano non dovrebbe essere considerato un terreno di caccia, né dovremmo pensare di istruire gli africani. I russi, i turchi e i cinesi lo hanno capito. Prima lo capiremo anche noi e prima sarà meglio. Dobbiamo distanziarci dalla forma mentis di Josep Borrell, l'Alto rappresentante dell'Unione europea per gli affari esteri, secondo cui l'Europa è un giardino incantato insediato dalla giungla che avanza.