Agli Stati Generali della cultura nazionale, nome un po’ pomposo dato a una giornata di convegni a Roma il 6 dicembre per riunire molti fra intellettuali e operatori culturali che si riconoscono nella destra in Italia, non c’erano soltanto i personaggi celebri, gli autori famosi, le firme note, ma anche editori, scrittori e artisti che declinano e praticano la cultura di destra fuori dal cosiddetto mainstream. Fra le case editrici, una negli ultimi anni molto attiva è la fiorentina Passaggio al bosco, che già dal nome jüngeriano evoca quella destra che si considera, come si diceva un tempo, “anti-sistema”, cioè sicuramente non liberale, non sotto il profilo esclusivamente politico, ma proprio ideologico. Anche se, altrettanto sicuramente, oggi è legata da saldi ponti con la destra al potere, cioè con Fratelli d’Italia e il governo di Giorgia Meloni, che tramite il ministro Gennaro Sangiuliano ha promosso l’iniziativa romana. Il quarantenne Marco Scatarzi dirige Passaggio al bosco, è molto attivo nell’underground d’area (scrive anche sul mensile Primato Nazionale) ed è l’anima di Casaggì, centro culturale di destra radicale a Firenze, realtà che ben rappresenta sia l’uno che l’altro aspetto: militanza di idee alternative da un lato e buoni rapporti, sul piano politico, con il partito-guida del centrodestra dall’altro. Era nel parterre dei relatori agli Stati Generali, e qui chiarisce cosa voglia dire, almeno per lui, “promuovere la cultura nazionale”.
Marco Scatarzi, anzitutto: come definirebbe la linea, il pensiero ispiratore della sua casa editrice?
Direi che il nostro è un pensiero identitario, di contrapposizione alla società globalista di mercato che tende a creare individui omologati e sradicati. Noi proponiamo, secondo una visione del mondo organica, una cultura del radicamento.
Avendo come dimensione di riferimento quella nazionale?
La civiltà europea, per l’esattezza. Questa è una caratteristica che ci contraddistingue rispetto ad altre realtà: non siamo sciovinisti. La contrapposizione fra le nazioni europee, oggi di moda, non ha ragion d’essere: la cultura europea sta subendo un attacco frontale da parte della cancel culture e di tutta una serie di pratiche del mondo globalista e progressista.
Si può definirvi di estrema destra?
No, l’etichetta di estrema destra è definizione usata per screditare. La nostra visione del mondo non è estrema rispetto a niente, semmai alternativa al pensiero dominante e alla dittatura del politicamente corretto, a prescindere da destra e sinistra.
Ma siete schierati a destra. Un rapporto con la destra di potere c’è, altrimenti lei non sarebbe stato invitato agli Stati Generali. Che tipo di rapporto è?
Personalmente non ho tessere. Contribuisco a dirigere Casaggì, occupandomi di metapolitica e di cultura. Sono stato invitato perché, oggettivamente, Passaggio al bosco è una delle case editrici più attive nel panorama identitario: fa un libro a settimana e circa cento convegni all’anno in tutta Italia. Insomma: è un attore di questo fermento, che credo meriti un’interlocuzione.
E il rapporto fra Casaggì e Fratelli d’Italia, nello specifico, qual è?
Abbiamo fatto la scelta di sostenere dei candidati a Firenze, in una logica prettamente territoriale, qualora fossero da noi condivise le loro idee e battaglie. Lo abbiamo fatto con alcuni candidati presentati con Fratelli d’Italia negli ultimi anni e che sono stati eletti, ma la nostra non è una situazione per sua natura istituzionale o partitica. Ha una sua autonomia. Il rapporto con FdI è fatto di iniziative condivise, cosa peraltro che possiamo fare con chiunque possa avere punti in comune con noi.
Il nome di Casaggì è risuonato in occasione dello scontro fisico avvenuto non molto tempo a Firenze con alcuni giovani di sinistra. Esiste una sorta di “vivaio” giovanile nelle realtà come la vostra, o come anche Casapound per esempio, per cui ci sono spesso elementi provenienti dalla destra radicale che poi, per travaso, passano nelle file di Fratelli d’Italia?
Non c’è un travaso automatico. Possono esserci situazioni locali, ma non c’è una convergenza strutturale organizzata. È successo, ma sinceramente in modo sempre meno frequente. Casaggì è un discorso a parte perché ha sempre operato in sinergia con un certo mondo politico, perché la nostra iniziale provenienza è quella di Azione Giovani, allora legata ad Alleanza Nazionale.
La violenza di strada di quell’episodio ha riacceso lo scontro sul fascismo e l’antifascismo. Perché la destra italiana non può dirsi e probabilmente non si dirà mai antifascista?
Al di là delle differenze dottrinarie, storiche ed antropologiche, l’antifascismo è un fenomeno psichiatrico di rigetto preventivo e di negazione di ogni confronto: è un modus operandi che compatta e tiene unita tutta la sinistra, ma non ha senso d’essere. È diventato un dogma ideologico intoccabile che spesso si manifesta attraverso la violenza: tuttavia, è la negazione dell’altro da sé, è prevaricazione, è prepotenza. Finché qualcuno continuerà a diffondere dell’odio (perché di questo si tratta: odio strutturale, sistematico e organizzato) sarà difficile superare certi schematismi. Detto questo, che vi sia ancora una contrapposizione in questo senso, talvolta, è perfettamente ridicolo nel 2023.
La destra, anche la sua, più radicale, si riconosce nella sovranità del popolo, articolo 1 della Costituzione della Repubblica? Si considera, anche culturalmente, democratica?
Al netto delle dissertazioni sulla dottrina politica, ritengo che sia “democratica” nella misura in cui non ha mai impedito a nessuno di esprimere un’idea. Non per fare le vittima, anche perché mai mi sono ritenuto tale, avendo fatto una scelta e sapendo quali erano le conseguenze, ma in 22 anni di militanza politica non mi sono mai sognato di andare da qualcuno a dirgli che non aveva il diritto di esprimere la propria idea, quand’anche fosse stata lontanissima delle mie. Quando mi passavano un volantino di sinistra all’università io ringraziavo e me lo leggevo. Dall’altra parte, invece, non c’è stato un volantinaggio che io abbia concluso senza che qualcuno cercasse di impedirmelo fisicamente. Si tirino le somme…
L’eterno dibattito sul fascismo evoca quello che forse è un problema per la cultura di destra in Italia, per lo meno quella maggioritaria: un certo ripiegamento sul passato, con il continuo rifarsi alle sacre memorie, per cui alla fine, e specialmente dove maggiore è il radicalismo, riciccia sempre fuori il fascismo e dintorni. Come se il passato non passasse mai neanche per voi.
Non può esistere una cultura che non prenda in considerazione ciò che c’è stato prima. In realtà, però, credo che una vivacità in questo senso ci sia: ci sono decine di testi, scritti anche da giovanissimi, che hanno ottime capacità. Penso che negli ultimi dieci anni sia stato fatto un grande passo in avanti da questo punto di vista. Se uno prende il catalogo di Passaggio al bosco, due terzi dei libri, tranne quelli delle collane storiche, sono legati all’analisi dell’attualità. C’è una proiezione in avanti, che devo dire di aver riscontrato agli Stati Generali: negli interventi che ho ascoltato non ho mai sentito un riferimento al passato, semmai una propositività in avanti.
Non vede quindi un certo passatismo, magari proprio stando sempre lì a rievocare, per fare un esempio paradossale, i futuristi?
Non lo vedo e non lo vivo così, perché, quand’anche ci fosse, è da considerare nell’ottica del bagaglio necessario a decrittare il presente. Del futurismo, per esempio, si cerca di trarre lo sforzo di guardare avanti, attualizzando quello slancio. È chiaro se ti cristallizzi sul quel periodo e non vai oltre, allora sì che fai del passatismo.
Cultura nazionale, diceva l’evento di Roma. E quella anti-nazionale, c’è? E qual è?
Sì, certo che c’è: è la cultura dominante progressista, legata alla sinistra. Lo è sempre stata, basti pensare alla mancata valorizzazione di certe fasi storiche, penso alla Grande Guerra, che non viene mai celebrata come si dovrebbe. La cultura anti-nazionale vuole superare limiti e confini, vuole sradicare le appartenenze, vuole creare gli individui astratti della cosiddetta “società aperta”. Io ritengo che a questo si debba rispondere con una cultura che non dev’essere di ripiegamento, come si diceva prima, cioè chiusa e ferma a schemi superati, ma una cultura che immetta il senso profondo dell’identità nel dibattito attuale. Cioè, per capirci, non può essere la cultura ottocentesca del nazionalismo di due secoli fa.
Quella, magari, che ama definirsi conservatrice, come il ministro Sangiuliano e come la stessa Meloni.
Io non mi definisco conservatore, ad esempio. Ci sono aspetti del conservatorismo che ritengo condivisibili e interessanti, come per la Rivoluzione Conservatrice tedesca, che però aveva una veste rivoluzionaria, che all’epoca incarnava una rottura totale con la mentalità borghese e liberale. Il conservatorismo non dovrebbe essere mai la musealizzazione del passato e l’adorazione delle ceneri. Se questo dovesse essere il passo futuro, è un passo verso il precipizio. Più che la conservazione, a me interessa la tradizione che resta viva, che è condivisa, che è dinamica. Cosa assai differente dal conservatorismo declinato al passato, soprattutto se liberale o liberista.
Ecco, a proposito: se vogliamo trovare un campione assoluto del liberal-liberismo anche come stile di vita, non ce lo abbiamo in Silvio Berlusconi (lunga vita a lui)? Cioè, l’immaginario che puntate ora a cambiare non è stato modellato in decenni di antropologia di quel tipo, con valori come il successo, i soldi e l’individualismo?
Sicuramente Berlusconi rientra nel liberalismo di stampo liberista, questo è evidente. Anche se ha avuto il merito di ancorare a quel modello antropologico una certa difesa della cultura nazionale, com’era per i liberali di venticinque-trent’anni fa allora ancora legati al contesto nazionale, oggi travolto da una mondializzazione a cui ha dato la spinta il liberalismo americano, contaminato con il progressismo woke. Sicuramente, però, va immaginata una fase che prescinda da una certa prassi liberista, che incarna il superamento di ogni limite, quindi anche di ogni identità, in linea con le esigenze di un mercato che ha la necessità di affossare ogni argine al dilagare delle merci.
A questo punto a uno verrebbe da dire: esistono almeno due destre, una, come la sua, sociale, anti-liberista, e l’altra, quella al governo, liberale e atlantista.
Sì, questa è una vecchia storia. C’era già nel Movimento Sociale Italiano. Io, per esempio, mi sono formato nel mondo di derivazione rautiana e nazional-popolare, che ha sempre posto la critica al capitalismo e al liberismo come elemento centrale del proprio agire. C’è sempre stato questo confronto interno: può anche essere una ricchezza, se stimola l’esistenza di un dibattito che condivide dei comuni obiettivi. Nel mio intervento agli Stati Generali, però, ho sottolineato di non concordare, nei termini, con la definizione di egemonia culturale della sinistra.
In che senso?
La sinistra ha un’egemonia dei mezzi, non della cultura. Per il semplice fatto che, di cultura, non ne produce quasi più. Non ci sono più grandi idee-forze mobilitanti e di prospettiva, ma tendenze di bassa lega e mantra auto-avveranti.
Con mezzi lei intende i media, i giornali?
Se andiamo a fare il computo finale, propendono più da una parte che da un’altra. Ma io parlo dei grandi mezzi: dalla tv alle grandi piattaforme digitali, dalla grande editoria al cinema, fino ai grandi festival, al mondo accademico, all’arte contemporanea. Ma attenzione, bisogna anche fare autocritica, perché penso che le fantomatiche egemonie si manifestano dove c’è un vuoto. Il mondo della destra è arrivato in ritardo: non ha mai puntato abbastanza sulla cultura, a partire dal periodo della Prima Repubblica, quando invece la sinistra ha saputo occupare e mantenere degli spazi. Ma oggi non c’è più la qualità che c’era un tempo, a sinistra.
Ma dettare “le linee programmatiche della cultura nazionale” non sa di tentativo burocratico calato dall’alto?
Io non credo che ci sia, perché finora non l’ho mai visto e anzi, bonariamente, io sono fra quelli che insiste perché ci sia un’organizzazione di alcune linee programmatiche. Non da far piovere dall’alto, perché la cultura deve germogliare dal basso. Ma un indirizzo generale, sì. Un governo degno di questo nome, e spero che questo sia tale, ha il dovere di porre alcuni punti fermi anche in ambito culturale, dando un minimo di orientamento. Altrimenti ci si riduce alla governance asettica che gestisca la macchina burocratica in perfetto stile liberista, appunto. Io penso che gli Stati Generali siano stati un’iniziativa fatta in questa direzione.
Mi metto nei panni dell’uomo comune, visto che l’egemonia lavora sul senso comune. Potrebbe pensare: d’accordo, idee interessanti sulla lotta al pensiero liberale dominante, però mentre in Francia fanno le barricate per difendere il diritto della vita contro l’economia, noi qua al governo abbiamo una destra che i soldi li usa per le armi all’Ucraina, come Stati Uniti impongono. Brutalizzo, ma non è ipocrisia?
Ovviamente, se fossi al governo e dicessi quanto ho detto, sarei un pazzo. La mia cultura è non liberista, ma capisco che andare a governare una nazione in un tempo come questo non possa prescindere da certi compromessi. Può non trovarmi d’accordo, ma non mi stupisce. Non mi sarei mai aspettato che un governo di centrodestra, ma anche di centrosinistra, uscisse da certe logiche di fondo, tanto meno dall’oggi al domani. Con le attività culturali come la mia non si scardina il liberismo, è evidente, ma si può mitigarne gli effetti e proporre delle alternative. La cultura può creare una sensibilità, anche negli atteggiamenti quotidiani di chi ne comprende gli spunti.
Quindi le multe per chi abusa dell’inglese possono rientrare in una strategia del quotidiano, chiamiamola così?
Io mi occupo di far emergere dal basso un fermento culturale, non scrivo leggi. Provvedimenti del genere possono essere utili simbolicamente, perché danno un orientamento e offrono un segnale. Rispetto al passato, forse, c’è la volontà di ripristinare alcuni elementi della cultura nazionale. Gocce nell’oceano, certo, ma sempre meglio di chi proponeva di chiamare “Matria” l’Italia e di firmare i documenti ufficiali con gli asterischi.