Peccato, peccato davvero! Che mancata occasione! Sì, che mi sarebbe piaciuto, nei giorni scorsi, raggiungere l’Hotel Quirinale, in via Nazionale, dove anche questo riferimento topografico, simbolicamente, qualcosa dice circa l’evento in questione, ossia il Gran Consiglio della destra culturale italiana. Lì con le sue ragioni pressanti, lì al tempo del governo “amico” di Giorgia Meloni, lì con le sue molte varie ed eventuali lungamente attese. Immaginifico il titolo: “Pensare l’immaginario italiano”. Quasi a dire e rivendicare autarchicamente uno specifico, appunto, “nazionale”, e non semplicemente contrassegnato in senso calcistico degli Azzurri; iconica memoria di Zoff che solleva la coppa al mondiale. No, proprio tricolore identitario. Per chi fosse curioso di storia politica cromatica altrettanto nazionale, si sappia che non meno azzurra era la camicia dell’Associazione nazionalista, che infine confluirà tra i manipoli fascisti indossando rassegnata il nero d’orbace; ma son questi dettagli. Sottotitolo, se non sottopancia, come usa dire nei talk televisivi, “Stati generali della cultura nazionale”. Quasi la Vandea pronta a strappare a Robespierre e Saint-Just gli interi scranni della Convenzione.
L’intento era dunque ponderoso, ma soprattutto fondativo: le terre, le teste emerse della destra. Finora, sì, esistenti però in forma anfibia, nel migliore dei casi a bagnomaria o semplicemente ospitate nel mezzanino mediatico berlusconiano, in realtà tenute meschinamente sott’acqua dall’egemonia altrui, cioè “comunista”. Gramsci addirittura dai relatori evocato per indicare l’emersione in corso d’opera.
Dimenticavo di dire che in quegli stessi momenti mi trovavo a Firenze per incontrare Fernando Arrabal, ultimo nume ancora vivente del più immaginifico surrealismo, presente al teatro La Pergola, con la messa in scena della sua “Lettera al generale Franco”, dove, evocando il fascismo spagnolo, si legge: “Il suo passatempo preferito è uccidere conigli, piccioni e tonni. Nella sua biografia, soltanto cadaveri! Tutta la sua vita ammuffita dal lutto. La immagino attorniata da colombe senza zampe, ghirlande nere, sogni che trasudano morte e sangue”. Un sunto di certo immaginario già caro anche alla destra italiana. Possano dunque le parole dell’anarchico Arrabal mostrare virtualmente il fondale mortuario, l’album di famiglia dei fascismi, impossibile da non evocare perfino quando la destra sceglie di mostrarsi a figura intera.
Ora, per un istante, come in un fotogramma, blocchiamo i visi presenti al Gran Consiglio di via Nazionale, nella conquistata quadricromia meloniana: il volto di Gianmarco Mazzi, sottosegretario alla cultura, dello scrittore Camillo Langone, del filosofo Stefano Zecchi, del direttore del Maxxi Alessandro Giuli, del giornalista Luigi Mascheroni, del ministro della cultura Gennaro Sangiuliano, del “figlio d’arte” Emanuele Merlino, di Federico Palmaroli detto Osho, di Francesco Borgonovo, di Luciano Lanna, di Pietrangelo Buttafuoco. Tra questi anche creature ai miei occhi stimabili, con le quali ho un rapporto di amicizia. Dimenticavo Marcello Veneziani, riconosciuto sosia di Lev Trotskij.
Ecco però che d’improvviso, a dispetto dell’attenzione doverosa da prestare all’evento fondativo del “pensiero nazionale”, la mia attenzione viene risucchiata dalle parole di Michele Serra apparse su “Repubblica” a commento di un post Instagram di Paola Belloni, disvelata compagna Elly Schlein, dove si lamenta un’indebita irruzione dei paparazzi, atto di lesa maestà giornalistica, intrusione non accettabile nel sublime edificante “di sinistra”. Così Serra: “La cosa che mi ha più colpito, nel post di Paola Belloni, è la forma. Il post di Paola è scritto in un italiano accurato e profondo, oserei dire insolito (basti quel cenno agli ‘spatriati che lasciano le loro province pieni di graffi e di segreti’, frase che dice, sull’omofobia, più di mille comizi). Sempre più spesso mi capita, quando leggo o ascolto qualcuno in televisione, di badare alla forma quasi con trepidazione: come se fosse un segnale di salute pubblica e di resistenza politica anche quello, o soprattutto quello”.
In pochi istanti sembra quasi che il meraviglioso e compito mondo di tutte le Amélie “di sinistra”, proprio attraverso le parole dell’ex direttore di “Cuore”, in nome d’ogni ironia perduta a favore invece della superiorità morale al sentore di patchouli, se non di rose, voglia affermarsi in risposta ai blazer “Davide Cenci”, alle borse “Louis Vuitton”, alle obiezioni dell’altro insieme umano, politico e antropologico in quel momento riunito all’Hotel Quirinale. Da Serra in breve l’ennesima apoteosi del tacco basso e della zuppa di farro e d’ogni altra delizia letteraria del beauty-case civile per ceti medi riflessivi, parole al cui semplice sentore, non sembri un paradosso, per contrasto e necessaria ironia ad alcuni potrebbe venire addirittura voglia di trasformarsi in King Kong aspirante carnivoro alla disinvoltura post-fascista, forse addirittura al sogno di una monarchia assoluta mitigata dal terrore.
Insomma, tragicamente l’idea persistente di una sinistra “con prenotazione obbligatoria”, mossa dalla preoccupazione di ben ripiegare il tovagliolo della misura sembra infine, se non legittimare, far comprendere l’intento antagonistico di quel Gran Consiglio in corso d’opera, la voglia di virare il concetto gramsciano di egemonia verso, se non l’opera al nero, comunque in direzione della tinta antracite; o piuttosto del grigio topo. Come segno di finalmente fuoriuscita dalle “fogne”; si sappia che, per antifrasi e contrasto, il giornale di un apprezzabile intellettuale di destra, Marco Tarchi, purtroppo assente al Gran Consiglio di via Nazionale, prendeva, appunto, nome “La voce della fogna”.
Chissà come, chissà perché, o forse è facile intuirlo, pensando proprio alle ragioni di un’assemblea identitaria al tempo ritrovato delle occasioni, delle opportunità, delle commende, delle cooptazioni, degli strapuntini, perfino dei buoni-pasto, i voucher pubblici di Giorgia Meloni, tra incarichi nei media di Stato e partecipate, pensando invece a una destra eroicamente elegante mi tornano invece in mente alcune figure di intellettuali francesi che, sebbene i prossimi al collaborazionismo con i tedeschi occupanti, mostravano, appunto, un’eleganza invidiabile, un proprio bisogno di alterità. Intendiamoci, non penso esattamente a Robert Brasillach, le cui opere furono in Italia furono prefate addirittura da Giorgio Almirante, infine fucilato al Forte di Montrouge nel 1945, nonostante un appello per la grazia cui aderirono molti resistenti antifascisti tra cui Albert Camus. Penso semmai, perdonate la citazione colta, allo scrittore Roger Nimier, curatore presso Gallimard delle opere di Louis-Ferdinand Céline, Nimier a bordo della sua Aston Martin, Nimier autore di un romanzo assente a ogni retorica borghese quale “L’ussaro blu”, Nimier lì ad affermare un sentimento individualistico e, se proprio vogliamo, anche dandistico invidiabile, intellettualmente lussuoso, sontuosamente mosso dall’Eros.
Leggo invece che alla fine, a incoronare l’intera giornata del Gran Consiglio della destra, spiccava l’ideatore del cabaret del “Bagaglino”, Pier Francesco Pingitore, il suo immancabile borsalino da capannello al bar “Vanni” di viale Mazzini, avamposto d’ogni conciliabolo per la conquista del Palazzo della Rai e del suo Cavallo.
Quanto alla brama per le cariche che adesso prospettano al tempo della Fiamma mai occultata giunta intatta a Palazzi Chigi, nulla di più prosaicamente umano. Dove il consenso alle urne serve ad affermare che finalmente, a dispetto di Nanni Moretti e della stessa edificante narrazione “radical chic” dell’amore tra Elly e Paola, altri si apprestano a ballare, bosco di braccia tese sullo sfondo della tavernetta, del grottino, se non dello “scortico” del potere infine ottenuto.
Nulla infine esclude che a partecipare come oratore ufficiale alle celebrazioni dell’ormai impronunciabile 25 aprile possa essere incaricato, dopo lunghe ponderate e opportune riflessioni, grazie a un provvidenziale ordine del giorno Veneziani, l’amico Pino Insegno.