A parte la battuta del ministro Gennaro Sangiuliano su Dante capostipite della cultura di destra, o aver piazzato giusto qualche nomina (come Alessandro Giuli al museo MAXXI di Roma), oppure, toh, un Pino Insegno gigioneggiante sul palco elettorale con Giorgia Meloni, finora non pare che il nuovo governo, il più a destra della storia repubblicana, abbia ancora mostrato segni di volontà egemonizzatrice nel campo culturale. “Sono passati solo 100 giorni”, osserva Luigi Mascheroni, firma del Giornale. Secondo il quale, però, la destra dovrebbe fare come ha fatto sempre la sinistra: occupare tutti i posti senza fare prigionieri. Più precisamente, “deve essere come Attila”. Il prossimo banco di prova è il rinnovo del vertice al Salone del Libro di Torino: “Perché non mettere un Bruno Guerri o un Buttafuoco?”. Mentre su Sanremo potrebbe perfino restare Amadeus, ma cambiando l’intera dirigenza. In nome di valori “conservatori” più che “liberali”.
È finita la Settimana Santa degli incassi pubblicitari Rai, ovvero il Festival di Sanremo. Che ha cannibalizzato tutta l’attenzione, forse contribuendo all’astensionismo stellare alle regionali in Lazio e Lombardia. Il centrodestra vincitore, di solito danneggiato dalle urne deserte, stavolta lo aveva messo in conto a proprio vantaggio?
Non lo so, però io credo che uno dei motivi, soprattutto in Lombardia, fosse che la vittoria del centrodestra era data per scontata da tutti, tranne che per la solita ZTL di Milano che vota a sinistra, il mondo del sindaco Beppe Sala e delle piste ciclabili, o degli assessori alla mobilità che fanno sciacallaggio postando le foto di incidenti per promuovere il limite dei 30 all’ora in città, il mondo di questi pazzi, che non è il Paese reale. Il risultato della Moratti è stato imbarazzante, perché era invotabile per chiunque: per la sinistra, perché spiegami come qualcuno di sinistra potesse votare il braccio armato di Berlusconi, e per la destra, perché come potevano votare una che appena è stata messa a riposo ha subito sputato sul piatto in cui ha mangiato per vent’anni. Majorino, per parte sua, aveva l’appeal del nulla, e quindi era talmente scontato l’esito che da entrambe le parti molti non sono andati a votare, perché era inutile.
Ma il dominio sanremese dell’agenda setting non ha influito per nulla, inclusi gli show dichiaratamente anti-governativi?
No, guarda che l’elettore è molto più sveglio e scafato di quel che si immagina. E soprattutto, poi, c’è ancora l’onda crescente del nuovo governo. Mi ricordo una frase di Enrico Mentana quando Salvini pareva il padrone del Paese, con sondaggi al 38%: disse una cosa tipo “se oggi Salvini scende in strada e spara a uno, non perderebbe mezzo punto”. Oggi per la Meloni è la stessa cosa. Potevano farle cinque serate di fila di campagna contro, non si sarebbe spostato un punto. Il Paese oggi sta dalla parte della Meloni. C’è gente che mai e poi mai aveva votato a destra in tutta la sua vita che dice: lasciamola lavorare. Poi, per carità, bisogna vedere quanto dura: abbiamo visto che fine hanno fatto Salvini e Renzi. Su Sanremo però voglio dire una cosa.
Prego.
C’è uno scollamento totale da tempo, almeno dai tempi della guerra fra berlusconismo e anti-berlusconismo, fra uno zoccolo duro numericamente irrilevante ma mediaticamente potentissimo di gente della cultura e dello spettacolo e il resto del Paese. Stiamo parlando di un’élite piccolissima ma rumorosissima. Prendiamo il caso del Ddl Zan. Per mesi sembrava che fosse la priorità del Paese, e invece non fregava un cazzo a nessuno. E non parliamo del fatto che era una minaccia pericolosissima alla libertà di parola: per me, da giornalista, l’unico limite è un centimetro prima del codice penale. Già la legge Mancino, lo dico provocatoriamente, è già troppo.
Che fossero legittimi, gli attacchi di Fedez, a MOW lo abbiamo apertamente sostenuto. Però in fondo non sono mosse per richiamare la propria nicchia di mercato? Non è marketing che tornava buono per gli ascolti?
Infatti. Per me è puro show, e per l’altra metà è battaglia ideologica, per quanto non vissuta direttamente, diciamo. E ci sta, io sono per la libertà assoluta, è tutto legittimo. Però il Paese che guarda Fedez che straccia la foto, che viene baciato da Rosa Chemical, che assiste a questa un po’ stucchevole celebrazione Lgbtq fino all’ossessione, in una sorta di apologia dell’amore libero e del genderless, secondo me vede tutto questo come si guardano gli animali in gabbia: con un po’ di curiosità, un po’ di divertimento, un po’ di compatimento, ma non credo che quei proclami inneggianti alla frantumazione della divisione fra i generi al grande pubblico passa come una carnevalata. Voglio dire: anche i Gay Pride, non sono più dei Pride, sono solo carnevale. Chi li osserva dall’esterno li guarda come un circo, ma poi il problema per l’uomo comune non è la tutela, per esempio, di chi vuole fare la transizione di genere, è la bolletta del gas, è l’aumento dei prezzi. Chi va a votare pensa alle tasse universitarie del figlio, non a chi deve fare la transizione di genere.
È la tesi per cui la sinistra ha dato così tanta priorità ai diritti civili, battaglia storicamente liberale, da perdere per strada i diritti sociali.
Ma certo. Uno dice: magari Elly Schlein o Stefano Bonaccini non l’hanno capito. No! Il problema è che lo capiscono benissimo, che puntare sui diritti civili anziché sociali è perdente alle urne. Ma se ne fregano. Io credo perché sono ancora convinti che, pur perdendo alle urne, continuano a governare il Paese. Come? Attraverso l’egemonia cultural-spettacolare. La sinistra continua a decidere chi fa la Rai, chi fa Sanremo, chi fa il Salone del Libro di Torino.
Però non trovi che anche la destra, liberale-atlantista-filoamericana, dovrebbe fare autocritica sul piano culturale, per aver inseguito troppo il pensiero trasversale del marketing, che l’anima del mercato?
Personalmente, detta molto semplificando, io arrivo da quella che una volta era detta destra sociale, un po’ figlia della Nuova Destra.
Sei un nipotino di Alain De Benoist, il filosofo che poi ha addirittura abbandonato la categoria di destra?
Diciamo che l’ho letto moltissimo. Quindi questo mondo consumistico, globalizzato, turbo-capitalistico, americanizzato mi ha sempre lasciato freddo. Detto ciò, quel che secondo me dovrebbe essere la destra oggi in Italia per essere vincente e convincente è essere liberal-conservatrice, dove l’accento dovrebbe cadere sul conservatrice. Cioè una destra che provi a tenere il punto su alcuni valori forti, in base al principio per cui non è detto che andando sempre avanti si migliori. Con una grande attenzione, voglio sottolinearlo, ai temi sociali. E che prima di parlare di diritti, metta in chiaro che bisogna distribuire a ogni cittadino il proprio dovere, a cominciare dal pagare le tasse, o il dovere di lavorare.
D’accordo, ma poi per lavorare bisogna passare, secondo il pensiero di destra, sempre da lì, dal famoso mercato.
Il mercato è importantissimo. Le case editrici, cinematografiche, i giornali, sono aziende. Che senso ha un museo in cui nessuno entra ma sta in piedi solo perché lo Stato lo paga?
Dal punto di vista antropologico però il business as usual produce le Ferragni, criticatissima a destra in questi giorni.
Sulla Ferragni, da un punto di vista imprenditoriale, niente da dire, chapeau. Dal punto di vista del baraccone di Sanremo, invece, posso dire che mi lascia perplesso.
Prima parlavi di berlusconismo. Ma non è stato il berlusconismo, inteso come cultura mediatica di massa, a farci arrivare progressivamente ai Ferragnez?
Guarda, mi ha sempre infastidito l’equazione fra la “cattiva maestra televisione” berlusconiana e la trasmissione Drive In, una delle più geniali e creative di sempre. Quanta guerra s’è fatta contro Drive In che avrebbe lobotomizzato gli italiani, che è una grandissima cazzata. Se è questo il piano della discussione, non lo seguo.
No, semmai, se bisogna sbloccare un ricordo, con una battuta si potrebbe replicarti che il problema non era Drive In, ma Ok il prezzo è giusto, che dando un prezzo a tutto diffondeva l’idea, propria dell’immaginario consumistico trionfante, che tutto abbia un prezzo.
Chiaro, una volta che la merce si è imposta sugli altri valori, era evidente che si sarebbe arrivati all’acqua minerale a 8 euro dei Ferragnez. Pasolini prima che morisse diceva queste cose molto prima che qualcuno sapesse chi fosse Berlusconi. Aveva capito che l’Italia sarebbe finita in quel baratro.
Berlusconi che, a proposito, sa ancora piazzare le sue bombe di profondità, almeno sui media, per esempio con quell’attacco frontale alla Meloni su Zelensky.
Berlusconi ha intuito che c’era da ricompattare un pezzo di elettorato a ventiquattr’ore dalla chiusura del voto, avendo capito che c’è una parte del Paese, soprattutto nella sua area politica, che non sopporta Zelensky. La destra-destra, al di là della facciata e delle posizioni ufficiali che poi portano agli aiuti militari all’Ucraina, ha in sé un anti-americanismo che collima con la sinistra più radicale. Zelensky è visto solo come un’estensione degli Stati Uniti. Ecco perché Vauro vuole baciare in bocca Berlusconi.
Un’uscita comunque tattica, da parte dell’iper-americanista Silvio. Fra l’altro senza troppo successo, visti i risultati alle regionali.
Certo, lo ha fatto in maniera tattica, come dici tu, ma sapendo che un voto in più gli può venire da quella destra.
Venendo al tema dell’egemonia culturale, a parte le promesse di repulisti a Sanremo l’anno prossimo e poco altro, la destra al governo ha fatto poco finora…
…eh, son passati solo 100 giorni…
… sì, ma l’operazione-egemonia non rischia di ridursi solo allo spoil system, al cambio delle poltrone, invece di capire come eventualmente agire sulla cultura diffusa, quella medio-bassa, come si diceva una volta?
La mia è un po’ una provocazione ma fino a un certo: io sono ferocemente a favore dello spoil system. Per me è una religione. Dovrebbe essere una legge di Stato: chi vince, decide le poltrone. Deve essere Attila, non deve crescere più un filo d’erba se non sei tu a volerlo. Soprattutto in campo culturale. Senza pietà. Non si deve scegliere il migliore, ma il migliore della propria parte. In maniera scientifica. Se io ho vinto le elezioni, l’intera dirigenza delle istituzioni culturali pubbliche scelgo il migliore della mia parte. È così che si rispetta la volontà dell’elettore. In questi giorni si sta giocando la partita del Salone del Libro di Torino. È un caso di scuola: se è la Regione a dare in gran parte i soldi, e la Regione è governata dal centrodestra, in un Paese in cui ha vinto la destra, perché il direttore deve essere un intellettuale di sinistra? Come la Rai con Coletta, che è Rai-Pride. Giordano Bruno Guerri (presidente della Fondazione Il Vittoriale degli Italiani, ndr) non sarebbe un eccellente direttore del Salone? Il Fatto Quotidiano parla di Pietrangelo Buttafuoco (presidente del Teatro Stabile d’Abruzzo, ndr). Oppure Luca Beatrice (critico d’arte, ndr). Tutti nomi eccellenti di area di destra.
Indubbiamente, ma sono anche personalità irregolari, non “rassicuranti” per la politica, come invece è Sangiuliano, che difatti è stato nominato ministro alla cultura al posto, per esempio, proprio di un Guerri.
Può essere. Con Guerri ci sarebbero stati vantaggi in termini di creatività, di capacità di spiazzare.
Appunto: la destra ha ottimi nomi nel suo giardino, ma tradizionalmente meno militarizzati, almeno se parliamo di quelli più validi. È un “problema”, per chi fa le nomine, no?
Chi fa le nomine dovrà avere più coraggio.
Certo che sostituire solo le persone adottando l’identico metodo non è l’ideale.
Infatti la sinistra, che ora non può più farlo, dice che non è perché si è sbagliato in passato allora bisogna sbagliare anche adesso. No, è il contrario: proprio perché l’hanno fatto loro, ora deve farlo anche la destra. Poi, quando siamo pari, facciamo il liberi tutti e mettiamo davvero i migliori in assoluto, visto che lo so anch’io che lo spoil system puro non è il massimo. La Melandri, prima di Giuli al Maxxi, non era la migliore figura per quel posto in Italia: era la migliore che aveva la sinistra in quegli anni.
Bene, questo per la cultura più “ufficiale”. Ma nella cultura pop la questione non è che invece scarseggiano proprio, i nomi di destra, o quanto meno non di sinistra? Chi sono i Fedez di destra?
Questa è un’altra finta scusa che usa la sinistra. Io conosco cento persone fra scrittori, editori, artisti del cinema e del teatro che non sono di area sinistra, ma per nulla, eppure sono bravissimi e papabilissimi. Basta sapere chi sono e farli lavorare.
Quindi giusto mandar via Amadeus dal prossimo Sanremo.
Non è che Amadeus sia di sinistra. È un pongo, che prende la forma del momento. Potrebbe essere che in una situazione diversa, con altri vertici Rai e con una nuova idea di festival, faccia l’opposto di quel che ha fatto ora.
Che resti, dunque, Amadeus.
Ma sì, è talmente camaleonte che si adatterebbe. Il vero problema è Stefano Coletta (direttore dell’intrattenimento prime time della Rai, ndr), che è talmente ossessionato dall’universo gender fluid che senza di lui Amadeus avrebbe fatto un festival diverso, senza tutti quegli eccessi.