Giammarco Menga è uno degli inviati principali del programma Quarto Grado, in onda su Rete 4. Dal 2021 segue da vicino i principali casi di cronaca nera del nostro Paese, spesso le storie più complesse e dolorose. Nel 2024 ha pubblicato Il delitto di Saman Abbas. Il coraggio di essere libere (Newton Compton editore), un’opera che ricostruisce minuziosamente una delle storie più sconvolgenti degli ultimi anni: l’omicidio di Saman Abbas, la ragazza pakistana uccisa a Novellara nella notte tra il 30 aprile e il 1º maggio 2021 per aver desiderato una vita diversa da quella imposta dalla sua famiglia. Un libro che non è solo cronaca, ma anche testimonianza del prezzo che, ancora oggi, alcune donne pagano per il loro desiderio di libertà. “Saman voleva solo essere libera – ci ha detto – e la sua storia ci interroga tutti, perché non possiamo accettare che nel 2024 si muoia ancora per amore, per paura, per controllo familiare. Il suo sacrificio deve diventare una responsabilità collettiva". Ci siamo confrontati sul caso Emanuela Orlandi, emblema di una verità che sembra sempre sfuggire: “Più passa il tempo – ci ha detto – più diventa difficile trovare risposte, perché le prime ore sono quelle decisive in qualsiasi indagine”. Eppure, nonostante il tempo trascorso, l’attenzione pubblica non si è mai spenta. Abbiamo parlato della vicenda di Alessandro Venturelli, un caso che lo ha segnato profondamente e che ha seguito anche all’estero, accanto alla madre del ragazzo: “Ce l’abbiamo un po’ tutti nel cuore”, ci ha confidato. È una delle scomparse che più desidererebbe vedere risolte, non solo da cronista ma da essere umano.

Hai scritto un libro sul caso Saman. Quanto è stato difficile per te entrare nella psicologia della protagonista e della sua famiglia, sapendo che dietro a un atto così brutale c'erano anche contraddizioni, dinamiche e culture complicate?
Sicuramente è stata una sfida non semplice. Io, come ho poi scritto in coda al mio libro, sicuramente ho avuto la fortuna, chiamiamola così, di avere una Saman in casa sostanzialmente, perché avendo una compagna che ha avuto una storia similare, è chiaro che certe dinamiche e la cultura che era alla base di certe pratiche retrograde come quella che aveva la famiglia Abbas, avevo imparato a conoscerle anche tramite i racconti della mia fidanzata. Quindi ho avuto una chiave interpretativa che mi ha aiutato molto, nonostante fossi occidentale, sia come persona sia poi come professionista. Abbinando questo background all'esperienza da cronista nel seguire questa storia, è chiaro che questo è stato il mio valore aggiunto nel poter cercare di leggere certi comportamenti, certe dinamiche, certi inganni, certe ricorrenze, i sensi di colpa che famiglie come quella di Saman facevano avere alle ragazze come lei, che cercavano di ribellarsi.
A distanza di quattro anni dal caso, come valuti l'operato delle forze dell'ordine e della giustizia?
Questo è stato uno dei casi in cui c'è stato il maggiore dispendio di energia anche nella ricerca del corpo nel primo anno e mezzo. C'è stato un approccio investigativo davvero profondo per risolvere il caso di Saman. Bisogna rendersi conto che nel caso di Saman le cinque persone che sembrano coinvolte nella vicenda – dico "sembrano" perché il primo grado ci ha detto che in realtà i due cugini sono stati assolti, ma io sono quasi sicuro che è una sentenza che verrà ribaltata tra pochi giorni in appello – sono state tutte assicurate alla giustizia. E non era assolutamente scontato, perché sono stati recuperati in Europa: due in Francia e uno in Spagna, lo zio e i cugini. E io ho seguito in prima persona l'arresto dello zio, andando anche a Parigi dove era stato latitante fino a settembre 2021. Ma soprattutto i due genitori che sono stati catturati in Pakistan, nonostante godessero della protezione della polizia locale, e poi sono stati estradati senza che ci fossero accordi tra Italia e Pakistan. Quindi per questo motivo bisogna dar merito sia ai Carabinieri sia alle forze diplomatiche.
Come hai già detto, il corpo è stato ritrovato solo un anno e mezzo dopo la scomparsa. A distanza di tanto tempo, cosa possiamo dire sulla verità di questa vicenda? Quali sono le domande ancora aperte? C'è un elemento in particolare che non riesci ancora a spiegarti?
Sicuramente non c'è mai stata la pistola fumante in questa storia, perciò bisogna saper interpretare la vicenda partendo dal background culturale che soggiace a storie come questa. La premeditazione per esempio, che io sono sicuro ci fosse. Nonostante tanti elementi oggettivi, non potremmo mai avere la certezza che quella fossa sia stata scavata la sera del 29, anche se ci sono molti elementi che la procura ha raccolto e che fanno propendere in questa direzione. E poi l'altra cosa che mi viene da dire, a maggior ragione se saranno condannati anche i due cugini, a differenza del primo grado, è: chi realmente ha tolto la vita a Saman? Perché noi ci basiamo sulla dichiarazione del fratello, che è stato ritenuto inattendibile in primo grado e che invece secondo me verrà ritenuto in parte attendibile dal secondo grado, il quale ci dice che è stato lo zio a mettere le mani al collo della sorella. Ma in realtà questo non potremo mai provarlo, e quindi, se poi viene accertato dalla giustizia che anche i cugini fossero presenti sulla scena, non potremo mai sapere chi ha ucciso materialmente Saman. Se si parla di un clan, restituiamo dignità e giustizia a questa ragazza. Perché il corpo è stato trovato dopo 18 mesi. Questo vuol dire, e ce l'ha detto anche la perizia, che sotto le unghie non è stato possibile ricavare nulla e, di conseguenza, non sapremo mai se lei si è difesa, e contro chi si sia difesa. Questo credo che sia un dubbio che purtroppo resterà. L'unica cosa certa è che Saman è stata tradita, ingannata e uccisa dalla famiglia. Questa è l'unica cosa certa che resterà.

Quindi secondo te quale sarà l'evoluzione del processo in appello?
Il fatto che sia stato riascoltato il fratello di Saman mi ha fatto percepire che, rispetto al primo grado, i giudici d'appello pensino che ci sia del vero nella sua testimonianza. Anche perché una cosa su cui mi sono speso anche nel mio libro è stata quella di cercare di far capire che andare contro dei genitori, dei cugini, contro uno zio, non è assolutamente scontato. Dovremmo metterci nei panni di questo ragazzo che aveva sedici anni ai tempi e che oggi ne ha venti. E quindi il fatto che sia stato riascoltato mi fa percepire che i giudici vogliano dargli credito. Questo cosa vuol dire? Che, unita alla sua testimonianza, quella che ha rifatto in aula lo zio Danish dicendo che i cugini fossero con lui quella notte – sono dichiarazioni che in primo grado, per vizi procedurali, non erano state acquisite – potrebbe portare a cinque condanne. Questo è il mio pronostico sulla base non solo dello studio degli atti, del caso, del libro che ho scritto, ma anche per la percezione che ho avuto in aula. Non so se verranno accolte totalmente le richieste della Procura, che sono ovviamente richieste altissime che hanno fatto anche discutere, che hanno restituito forse anche un senso di giustizia popolare, questi cinque ergastoli. Però mi aspetto un ribaltamento della sentenza in primo grado e, come ho scritto nel libro, questo dal mio punto di vista significherebbe avvicinare – cosa mai scontata nei casi – la verità processuale alla verità storica. Perché fino adesso, fino al primo grado, ritengo che questa distanza fosse molto ampia.
In questo periodo stiamo assistendo a un interesse sempre maggiore per la cronaca nera, che magari fino a qualche anno fa sembrava relegata in secondo piano. È davvero così? E se sì, come mai?
Sicuramente la cronaca nera sta guadagnando sempre più popolarità rispetto al passato, e questo per diversi motivi. Il primo è, purtroppo, che certi fatti di cronaca coinvolgono sempre di più anche le fasce più giovani. Lo vediamo quotidianamente: femminicidi, omicidi tra ragazzi per screzi legati a bande… c’è una progressione spaventosa. Dall’altra parte, c’è anche l’apertura di nuovi mezzi digitali alla trattazione di questi temi. E poi, c’è anche il fatto che molte sentenze di casi già mediatici in passato vengono messe in discussione. Questo ha acceso l’interesse anche in chi prima magari non era attratto da questi argomenti. Insomma, da una parte c’è un’escalation di episodi gravi tra i giovani – come il femminicidio recente di una ragazzina di 13 anni per mano del fidanzatino 15enne – e dall’altra la grande diffusione di questi temi sulle piattaforme digitali, dove si parla spesso anche di casi riaperti o rivalutati dopo anni, riscoperti proprio dai più giovani.
E secondo te c’è un po’ di morbosità da parte dei media nel trattare certi argomenti?
Credo che si alimentino a vicenda. Più che morbosità, direi che si crea una linea narrativa che poi si autoalimenta: ne parla uno, poi un altro, poi un altro ancora… e si crea una catena. Quando un caso inizia a emergere, magari perché ci sono elementi che non tornano, allora inizia l’attenzione mediatica, si scoprono dettagli, si fanno approfondimenti… e quel caso diventa un tema fisso per un po’. Ci sono dei cicli: una storia parte, poi cala, poi magari risale. Succede così con i grandi casi mediatici. Ti faccio un esempio: Saman, nei primi due anni, è diventata una delle narrazioni principali in Italia. Adesso è tornato d’attualità il caso di Garlasco, com’era successo 18 anni fa. C’è stata la fiammata su Erba l’anno scorso, Avetrana con la scarcerazione di Misseri, e magari ci sarà un’altra ondata se verrà chiesta la revisione, come per Erba. È la fisiologica natura di certi grandi casi: quando emergono nuovi sviluppi o possibilità, torna anche quel senso di morbosità che citavi.
E la giustizia? Quanto è influenzata dai casi mediatici?
È una domanda complessa. I giudici dovrebbero essere sempre indipendenti da qualsiasi influenza. Però è chiaro che i media influenzano la nostra vita quotidiana, quindi è difficile pensare che ne siano del tutto immuni. Detto questo, ci sono segnali che mi fanno avere fiducia nella giustizia. Per esempio, nel caso di Erba, nonostante la grande pressione mediatica per la revisione del processo, non si è arrivati a riaprire il caso. Questo vuol dire che i giudici non si sono fatti influenzare né dalla politica né dai media. Tornando a Saman, anche se la narrazione mediatica ha sempre parlato di un omicidio collettivo, i giudici di primo grado hanno assolto i cugini, nonostante la procura avesse chiesto oltre venti anni di carcere. Quindi, al di là del nostro lavoro giornalistico, io dico: ben venga se la giustizia resta autonoma. A volte veniamo accusati di influenzare negativamente i processi, ma ci sono casi che dimostrano il contrario.

Ci sono casi in cui i parenti delle vittime non sembrano accettare le logiche del diritto. Ne abbiamo parlato anche prima: i genitori di Chiara Poggi accettano solo Stasi come colpevole, la sorella di Giulia Cecchettin non accetta il decadimento dell’aggravante della crudeltà per Filippo Turetta. Come ti spieghi queste reazioni?
Partiamo da un assunto che credo valga sempre: le vittime hanno sempre ragione. E da questo punto di vista è difficile giudicare le loro reazioni. Io ho seguito in parte la storia di Giulia Cecchettin e certo fa impressione leggere che la crudeltà non sia stata riconosciuta nonostante le 75 coltellate. Ma bisognerebbe entrare nel merito del diritto per capire che cosa si intende tecnicamente per “crudeltà” e come i giudici l’abbiano valutato. Al di là della razionalità del diritto, però, c’è l’aspetto emotivo. E questo è comprensibile. La rabbia dei familiari è legittima. Capisco perfettamente lo stato d’animo della famiglia Cecchettin, così come della famiglia Poggi o della famiglia Tramontano, che fino a poco tempo fa era ancora sotto i riflettori. Per noi giornalisti è sempre difficile mantenere un rapporto con queste famiglie: bisogna avere tatto. E poi, quando i riflettori si spengono, spesso queste persone rimangono sole con il loro dolore. Per questo cerco sempre di mantenere i contatti anche con famiglie di storie che non sono più attuali in tv. Il rischio più grande, infatti, è che vengano dimenticate. E questa, dal punto di vista umano, è la cosa peggiore.
Invece, secondo te, dopo più di quarant'anni sapremo mai la verità su Emanuela Orlandi?
Più passa il tempo, più diventa difficile ottenere delle risposte. Si dice sempre che le prime ore, ancora più dei primi giorni, siano cruciali per qualsiasi indagine: è lì che si gioca il destino di una storia. Per questo, a distanza di così tanti anni, è complicato. Certo, si può sempre rileggere le carte, reinterpretare, dare maggiore peso a certi elementi rispetto ad altri, ma resta comunque molto difficile.
È più una questione di difficoltà nel ricostruire una vicenda così lontana nel tempo o, secondo te, ci sono ancora delle resistenze da parte del Vaticano?
Onestamente, credo più alla prima. Non voglio per forza vedere dietrologie o complotti. Non ho studiato approfonditamente le carte di questo caso, quindi quello che ti dico è un parere molto cauto. Però credo davvero che la principale difficoltà sia legata alla distanza temporale. Dopo così tanto tempo, molte attività investigative diventano impossibili da recuperare, e il punto cruciale è sempre capire com’è stata gestita l’indagine all’inizio. Ma, appunto, su questo non ho gli elementi per esprimermi in maniera precisa.
Allora ti faccio un’ultima domanda, un po’ più personale: se potessi, quale caso di cronaca ti piacerebbe risolvere?
Una storia che mi ha toccato profondamente è sicuramente quella della scomparsa di Alessandro Venturelli. Ho anche condiviso dei momenti con sua madre, siamo stati insieme in Olanda per seguire una segnalazione. Con Quarto Grado abbiamo seguito a lungo il caso, che resta avvolto nel mistero: non si sa che fine abbia fatto Alessandro. La madre, giustamente, finché non riceve prove del contrario, continua a credere che suo figlio sia vivo, da qualche parte. Quindi più che “risolvere” un caso, mi piacerebbe che si ritrovasse questo ragazzo. È una storia che ci è entrata nel cuore, a tutti noi. Quindi, senza andare troppo lontano nel tempo, ti dico: risolvere il giallo della scomparsa di Alessandro Venturelli — e intendo risolverlo ritrovandolo vivo — sarebbe davvero qualcosa di bello. Un augurio per tutti, ma soprattutto per sua madre. Ho vissuto da vicino il suo dolore, ma anche la sua speranza, soprattutto quando siamo andati in Olanda per seguire una delle tante segnalazioni che continua a ricevere tuttora.
