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⁠Ma quant’è paraculo il discorso di Giorgia Meloni all’Onu? Critica Netanyahu, ma l’Italia non riconoscerà lo Stato palestinese: “Non possiamo premiare Hamas”

  • di Riccardo Canaletti Riccardo Canaletti

25 settembre 2025

⁠Ma quant’è paraculo il discorso di Giorgia Meloni all’Onu? Critica Netanyahu, ma l’Italia non riconoscerà lo Stato palestinese: “Non possiamo premiare Hamas”
Giorgia Meloni all’Assemblea generale delle Nazioni Unite critica Netanyahu e promette che voterà a favore di alcune sanzioni Ue (quali?), ma nei fatti prova a fare contenti tutti, persino Israele. E per farlo pone due condizioni insensate per il riconoscimento dello Stato palestinese, ma sa bene che per sconfiggere Hamas non servirà a niente prolungare questa guerra

di Riccardo Canaletti Riccardo Canaletti

Abbiamo già scritto della “diplomazia del cazzeggio” di Giorgia Meloni, che sulla crisi palestinese plana con calcolata ingenuità (e quindi per nulla ingenua). La tesi di fondo è questa: Meloni si garantisce stabilità politica e credito internazionale dando fastidio il meno possibile al maggior numero possibile di attori in gioco. Da Trump a Netanyahu, passando per i torturatori libici rispediti in Patria con voli internazionali, mantenendo una linea di silenzio su scrittori algerini perseguitati che hanno paura ad atterrare in Italia per dei festival, come nel caso di Kamel Daoud. Ci sono di mezzo degli interessi che forse è meglio non toccare, come quelli che girano intorno al piano Mattei in Africa e che riguardano proprio, guarda caso, sia l’Algeria che la Libia. Meloni va molto fiera del progetto, tanto da ricordarlo all’Onu, non senza qualche frecciatina a un alleato non precisato (ma sospettiamo sia la Francia, visto il passato coloniale): “Noi, a differenza di altri attori, non abbiamo secondi fini in Africa. Non ci interessa sfruttare il Continente africano per le ricchissime materie prime che possiede”. E proprio questo discorso è un buon esempio di un altro gradino della scala a pioli del sistema di governo meloniano: il paraculismo, versione depauperata del cerchiobottismo democristiano.

Il discorso all’Onu, all’apparenza, sembra impeccabile. Prima Giorgia Meloni condanna chiaramente la guerra di Putin: “Ha deliberatamente calpestato l’articolo 2 dello Statuto dell’Onu, violando l’integrità e l’indipendenza politica di un altro Stato sovrano, con la volontà di annetterne il territorio. E ancora oggi non si mostra disponibile ad accogliere seriamente alcun invito a sedersi al tavolo della pace”. Poi distingue saggiamente tra la reazione di Israele in prima battuta (“in principio legittima”, come hanno sottolineato anche molti intellettuali che in Italia giudicheremmo di sinistra – ma andrebbero semplicemente definiti liberali – come Michael Walzer) e il tracollo morale degli ultimi due anni di strage. Condanna apertamente Hamas e ricorda che la guerra è iniziata con l'attacco del 7 ottobre 2023. È inutile ricostruire la storia senza ammettere che quell’attacco disumano e antisemita si configura come un “evento”, un 11 settembre israeliano, e dunque sancisce definitivamente un prima e un dopo nella storia del conflitto israelo-palestinese, che invece dura da settant’anni. Giorgia Meloni annuncia anche il voto favorevole per attivare delle sanzioni europee contro Israele e ribadisce l’appoggio storico dell’Italia alla soluzione a due Stati.

Giorgia Meloni all'Onu
Giorgia Meloni all'Onu Ansa

È qui, però, che iniziano i problemi. Un discorso di buon senso che si scontra con un limite non teorico, non astratto, ma pratico, ben chiaro a chiunque, compresa evidentemente Giorgia Meloni, che dunque agisce consapevolmente, e cioè in modo un po’ paraculo. Nessuno infatti potrà dire che la premier italiana sia stata timida nel commentare le occasioni in cui “lo Stato ebraico ha finito per infrangere le norme umanitarie, causando una strage tra i civili”. Ma mentre alcuni Paesi europei, come la Francia e la Spagna, ed extraeuropei, come il Regno Unito, l’Australia e il Canada, si impegnano ufficialmente – anche se per qualcuno tardivamente – per fermare gli attacchi israeliani e ribadire che la soluzione a due Stati, indipendentemente dalle parole di Bibi Netanyahu, verrà perseguita dalla comunità internazionale; Giorgia Meloni pone due condizioni per il riconoscimento italiano dello Stato palestinese che, chiaramente, sono irrealistiche. Il discorso è, ancora una volta, perfettamente accettabile in superficie: “Riteniamo che Israele non abbia il diritto di impedire che domani nasca uno Stato palestinese, né di costruire nuovi insediamenti in Cisgiordania al fine di impedirlo. Per questo abbiamo sottoscritto la Dichiarazione di New York sulla soluzione dei due Stati. È la storica posizione dell’Italia sulla questione palestinese, una posizione che non è mai cambiata. Riteniamo, allo stesso tempo, che il riconoscimento della Palestina debba avere due precondizioni irrinunciabili: il rilascio di tutti gli ostaggi israeliani e la rinuncia da parte di Hamas ad avere qualsiasi ruolo nel governo della Palestina. Perché chi ha scatenato il conflitto non può essere premiato”.

È vero, Israele deve poter sopravvivere e questo dipenderà anche dalla guerra contro il terrorismo di Hamas. Uno Stato palestinese gestito da Hamas sarebbe, come sostenuto dallo scrittore Salman Rushdie, un altro “Stato talebano”. Questo è uno dei motivi per cui riconoscere uno Stato palestinese negli anni passati era quantomeno una pessima idea, se non un vero e proprio assist al terrorismo islamista. Ed è anche vero che la condizione centrale per arrivare a una tregua sarà il rilascio dei pochi ostaggi ancora vivi (forse) nei tunnel di Hamas. Ci sono però due problemi. Il primo: riconoscere lo Stato palestinese oggi è un modo per mettere pressione al governo israeliano, non è un gioco di moralità astratta. È un punto fondamentale. La formazione di uno Stato richiederà tempo ed è evidente che la comunità internazionale si impegnerà affinché, come ha anche garantito l’Autorità palestinese, la cosa avvenga senza Hamas. Ma nel frattempo ciò che ha la priorità, evidentemente, è la fine del massacro oggettivo, della certa pulizia etnica e del probabile – se non certo anche questo – genocidio. Porre come condizione l’estromissione di Hamas dalla formazione di uno Stato non è solo un vincolo ridondante (visto che, a tempo debito, Hamas non parteciperà alla formazione dello Stato). Anche Macron, per esempio, ha più volte ribadito la necessità di cancellare qualsiasi ipotesi che al potere possa restare Hamas, ma non ha posto questo limite pur di non riconoscere lo Stato palestinese. Ma anche fuori luogo. 

Emmanuel Macron all'Onu
Emmanuel Macron all'Onu Ansa

Il secondo problema, invece, riguarda proprio il rilascio degli ostaggi. Se questa è una premessa necessaria per arrivare a una tregua (forse è troppo chiedere la pace), non è in nessun modo una condizione di base per il riconoscimento dello Stato palestinese. Se si intende riconoscere uno Stato senza Hamas, i crimini di Hamas non possono diventare un vincolo per il riconoscimento dello Stato. La fine della guerra dovrà passare anche dal rilascio degli ostaggi, così come da altre garanzie che Giorgia Meloni si guarda bene dal menzionare: dal rilascio degli “ostaggi”, tra cui molti prigionieri civili, nelle carceri israeliane, la fine dell’occupazione illegale in Cisgiordania, la fine del controllo materiale ai confini della Striscia di Gaza (per esempio su canali di comunicazione, via commerciali e infrastrutture). Come è evidente, quella degli ostaggi non può essere né l’unica né la più importante condizione per la tregua. E di certo, quindi, non può essere la giusta premessa per il riconoscimento internazionale di uno Stato che si immagina alieno da Hamas. Tutto questo Giorgia Meloni lo sa, come lo sanno Macron o Starmer. Né Macron né Starmer sono pericolosi islamofascisti (o islamocomunisti). Solo che Macron e Starmer, pestati sistematicamente dalla stampa e dall’opposizione nei loro Paesi, non godono della libertà di azione, anzi, della libertà di paraculaggine, di cui gode il governo italiano, ora il più longevo dall’epoca Berlusconi. Da cui qualcosa, evidentemente, ha imparato.

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