Il governo Meloni è uscito dalla Nuova Via della Seta ma si è presto reso conto di non poter fare a meno della Cina. Almeno dal punto di vista economico. Le tensioni tra gli Stati Uniti e Pechino, intanto, continuano a crescere e minacciano la stabilità globale. Come scongiurare la catastrofe? E, soprattutto, quale ruolo potrebbe e dovrebbe giocare Roma all'interno di questa delicatissima partita? Ne abbiamo parlato con la professoressa Daniela Caruso, Scientific Director UN- SDGs Go ( United Nations - Sustainable Development Goals Global Observatory), che affronterà il tema in questione, in maniera approfondita, in occasione del Secondo seminario sui contributi della Cina nelle relazioni internazionali, in programma a Roma il prossimo 3 ottobre, in occasione del secondo seminario sui contributi della Cina nelle relazioni internazionali (Sud Globale e UE). L'evento, promosso e sponsorizzato tra gli altri dal think tank cinese ECI (Earth Charter International China, inserito nella rete Earth Charter delle Nazioni Unite), si terrà presso lo studio Advant Nctm, in Via delle Quattro Fontane 161, alle ore 17.30. Ecco tutto quello che ci ha spiegato.
Partiamo dalla Cina. Qual è il contributo di Pechino nella realizzazione degli obiettivi prefissati dall'agenda delle Nazioni Unite del 2030?
La Cina ormai ha profonda consapevolezza di essere una potenza mondiale e contemporaneamente ancora un paese in via di sviluppo. Questa combinazione di fattori promuove la sua azione per contribuire agli Obiettivi di sviluppo sostenibile sia a livello nazionale che internazionale. Mentre gran parte del mondo arranca da una crisi all'altra, la Cina continua a fare notevoli progressi verso il raggiungimento degli obiettivi dell'Agenda 2030. Credo che il modello abbia cinese molto da offrire ai tanti paesi che sono, per così dire, bloccati. L’ ultimo rapporto delle nazioni Unite sugli sviluppi e i progressi dell’Agenda ha di fatto il tono di un pianto greco. Invece, come ci dice il rapporto 2023 del World Economic Forum, la Cina si classifica al 17° posto su 120 paesi nell' Indice di transizione energetica del WEF del 2023 ed è un nuovo arrivato tra i primi 20 paesi. È vero, lo stesso rapporto nota anche che la Cina è tra i maggiori produttori e consumatori di energia al mondo, oltre ad essere uno dei maggiori emettitori rappresentando attualmente un terzo delle emissioni globali totali di gas serra. Tuttavia secondo il Ministero cinese dell'ecologia e dell'ambiente, le emissioni di CO2 per unità di PIL sono diminuite di circa il 48,4% tra il 2005 e il 2020, superando il suo impegno di raggiungere una riduzione del 40-45%. Inoltre, l'intensità di carbonio della Cina è diminuita di un altro 3,8% nel 2021, il che implica una riduzione di oltre il 75% dal 1990. Tali progressi sono stati ottenuti attraverso l'uso massivo di fonti energetiche alternative; la produzione di energia rinnovabile ha raggiunto i 2,7 trilioni di kilowattora, rappresentando il 31,6% del consumo totale di elettricità, un aumento di 1,7 punti percentuali rispetto al 2021. Ma non esistono solo i problemi ambientali, Pechino ha preso molto seriamente l’Obiettivo 1 sradicando la povertà estrema e garantendo la sicurezza alimentare raggiungendo il risultato con dieci anni di anticipo (fine del 2020). Sulla base di questi progressi sta dando priorità allo sviluppo dell'agricoltura con un intenso programma di rivitalizzazione rurale. In sintesi direi che il paese oggi è un laboratorio di buone prassi. Naturalmente sono stati fatti errori, sono state registrate battute di arresto, direi che il sistema è di gran lunga lontano da essere perfetto ma vanno avanti con determinazione. Alla perfezione aspirano e ci lavorano sodo ponendosi così avanti mille anni luce rispetto al resto del mondo.
Perché a suo avviso gli Stati Uniti – e con loro una fetta di Occidente - preferiscono contrastare la Cina anziché collaborare con lei per la risoluzione di problemi globali, e quindi di interesse dell'intero pianeta?
È evidentemente una questione di egemonia: economica in primis, ma anche politica e culturale. Nonostante i cambiamenti epocali cui stiamo assistendo l’Occidente non riesce ad accettare di non essere più il centro del mondo. È comprensibile, ma anche molto pericoloso perché, questa resistenza al cambiamento, offre la stura a tensioni serissime. Inoltre, direi che il nostro grave handicap è di pensare ancora che, nel 2024, la risoluzione dei problemi non nasca dal dialogo e dall’incontro tra le priorità e le necessità di tutti ma da dalla sopraffazione e dall’uso della forza militare, il cui spettro viene evocato in ogni momento di crisi.
Washington si ritira dalla governance globale mentre Pechino partecipa al dibattito pubblico e offre il suo contributo (nonché know how) per aiutare a sciogliere i nodi più rilevanti: è così oppure è una lettura troppo semplificata?
Direi che dall’amministrazione Obama in poi Washington non ha avuto una politica estera lungimirante e costruttiva. Oggi ringhia ai nemici di sempre, alza la voce con Pechino e si preoccupa di armare fino ai denti i suoi rappresentanti oltreoceano ma non sta costruendo relazioni futuribili. Pechino, di contro, considera i problemi internazionali come problemi di comunità. Ha poi bisogno di opporsi agli Stati Uniti e per farlo utilizza intelligenza, diplomazia e astuzia che sono le sue armi più potenti. Per tradizione la Cina è un paese pacifico, basti pensare che ha una sola base militare al di fuori dei suoi confini. Non arma popoli interi, propone politiche di reciproco sostegno e questo stabilisce rapporti proficui e a lungo termine. Così, mentre al di qua del mondo urliamo dall’ altro lato si cresce e il gruppo dei BRICS sta progressivamente costruendo se stesso come alternativa credibile.
Come si sta comportando il governo Meloni con la Cina? L'Italia è uscita dalla Nuova Via della Seta ma adesso è tornata a bussare alla porta di Pechino per chiedere – presumibilmente – investimenti...
Il governo Meloni è uscito dalla Via della Seta per pregiudizi ideologici ma anche perché aveva sul collo il fiato di Washinghton. Il disappunto degli imprenditori italiani e i numeri che sono arrivati sulle scrivanie del governo hanno imposto un cambio di rotta strategico, che salvasse, per così dire, “capra e cavoli”. I cinesi lo hanno capito e non hanno quasi battuto ciglio. Di investimenti cinesi in Italia (grandi e piccoli) ce ne sono più di quanti immaginiamo ma non si vedono; ciò avviene perché, generalmente, non viene toccato nulla nel management originario così come non vengono contratte le risorse umane. Mi auguro che questo governo non ricorra al golden power ogni volta che un cinese voglia investire su una formica in Italia (come faceva il governo Draghi) perché ci faremmo solo del male. Direi anche che bisognerebbe imparare a comprendere molto di più della Cina se ci vuole avere a che fare: le considerazione del Presidente del Consiglio a margine della sua pur fruttuosa visita a Pechino hanno avuto il sapore del nulla.
Come ci considera la Cina?
Un Paese come la Cina, con una storia ed un’identità culturale molto forti non può non amare l’Italia. Ogni discorso istituzionale parte immancabilmente dal riconoscimento che "Cina e Italia sono simili, due superpotenze della cultura accomunate da migliaia di anni di Storia". Seguono ricordi di Marco Polo e Matteo Ricci e un richiamo alla Via della. Al presidente cinese piace citare Dante e Petrarca, che ha letto da ragazzo. Ci pensano come passionali, rilassati, creativi, artisti del design ma anche abituati al ritardo. In generale ravviso che amino moltissimo il nostro Paese e la nostra cultura, ad esempio le mostre sull’ Italia in giro per la Cina riscuotono un successo enorme contando un numero inimmaginabile di visitatori. Tuttavia direi che ci riconoscono autorevolezza culturale, non politico-istituzionale. Difficilmente appariamo come un paese “serio” rispetto ai loro canoni.
L'Italia potrebbe fungere da “ponte” diplomatico tra l'Occidente e la Cina?
L’Italia non solo potrebbe ma dovrebbe farlo, però la vedo complicata. Se pur importanti strategicamente siamo un paese piccolo tirato per la manica da tutti. Non siamo pronti e neppure così autorevoli per poter promuovere un’operazione del genere in una comunità che cerca solo scontri. Utilizzare l’argomento storico serve a poco anche se viene citato sempre; oggi qualcuno ti risponderebbe che la Cina di Marco Polo…Non aveva un governo comunista. A parte gli scherzi direi che tale questione è pregiudizievole per l’Occidente democratico. Ma la cosa è assai più complessa di così e nessuno ha voglia di capirlo.
Quale futuro si aspetta per l'Europa: sarà totalmente anti cinese e incanalata sull'agenda Usa oppure ci saranno notevoli sacche di resistenza nei confronto di uno scenario del genere?
Così come oggi è l’Europa non ha futuro e di conseguenza non può avere neppure una visione di politica estera sensata. E’ giovane, ha bisogno di essere costruita e proiettata in avanti, ma non ha una leadership all’ altezza di farlo; i nazionalismi che imperversano ne sono prova evidente. Nei confronti di Pechino rilancia gli strali che provengono da Washinghton, promuove “indagini” (non sarebbe più ovvio caldeggiare un tavolo e parlare con la controparte?), strepita. Poi i singoli paesi nella loro autonomia fanno ciò che trovano opportuno. Naturalmente è un bene, ma bisognerà capire quanto riescano a non farsi influenzare dalle urla. La possibilità di separare Europa e Cina mi sembra direttamente proporzionale alla capacità dell’Europa di emergere come entità politica autonoma che non dimentichi la necessità e l’importanza di tenere Pechino dentro i suoi programmi. E se è vero che la Cina ha ancora grande bisogno dell’Europa è altrettanto vero che sta provando a costruire delle alternative. Diciamo che ha il piano B che manca a Bruxelles.