Italia e Cina hanno firmato un piano d'azione triennale per sperimentare nuove forme di cooperazione. Parola di Giorgia Meloni, volata a Pechino per rimettere in carreggiata i travagliati rapporti con il Dragone, anche e soprattutto nel settore dell’automotive. Vale subito la pena farsi una domanda: perché Roma si è svegliata soltanto adesso, dopo aver passato l’ultimo anno a sferrare attacchi politici all’indirizzo del gigante asiatico, cestinando la Via della Seta, e cioè il progetto economico imbastito dal leader cinese Xi Jinping, e facendo ben poco per attirare le simpatie cinesi? La risposta più probabile è una e si chiama realtà. I timori dell’Italia di una guerra commerciale tra Cina e Unione Europea si intrecciano con il continuo interesse ad attrarre investimenti cinesi nella produzione automobilistica e in altri settori.
A proposito di auto, l’Italia ha forse dato un’occhiata in giro e visto che i governi europei hanno stretto accordi con case automobilistiche cinesi (e non solo) pur restando ancorate alla Nato, ai valori democratici e agli Stati Uniti. Tralasciando l’esempio più estremo dell’Ungheria, ai ferri corti da sempre con l’Ue, che ha attratto BYD e la società di batterie elettriche CATL, possiamo citare i casi di Polonia, Francia e Spagna. Madrid ha convinto Chery ad aprire in Catalogna il suo primo sito produttivo europeo (bruciata sul tempo Roma), mentre Parigi è all’opera per convincere MG ad inaugurare una fabbrica oltralpe e Varsavia a fare altrettanto con Geely. Il governo italiano era rimasto ai margini del dossier e soltanto da poche settimane si è attivato per rimediare all’immobilismo strategico fin qui messo in mostra. Lo scorso 5 luglio, il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo D’Urso era in effetti volato in Cina alla ricerca – si dice – di uno o più investitori per rianimare il settore italiano delle auto elettriche. Il punto è che soltanto un mese prima lo stesso D’Urso spiegava che l’Europa avrebbe dovuto alzare i dazi sugli Electric Vehicle (EV) made in China per non essere spazzata via dalla concorrenza del Dragone.
È proprio questo atteggiamento ad aver infastidito la controparte cinese: il fatto che l’Italia sia tornata a bussare alla porta di Pechino soltanto nel momento del bisogno. Al netto del dietrofront del governo Meloni sulla Via della Seta, il gigante asiatico continua tuttavia a considerare Roma come un partner fondamentale, soprattutto dal punto di vista dell’immagine: l’Italia, del resto, fa parte del G7 ed è particolarmente vicina agli Usa, e dunque allontanarla dal rivale americano avrebbe una doppia valenza. In ogni caso, Meloni ha detto ai leader aziendali che Italia e Cina hanno firmato un memorandum di collaborazione industriale che include veicoli elettrici ed energie rinnovabili, descritti dalla premier come “settori in cui la Cina opera già da tempo sulla frontiera tecnologica”. Un successo in arrivo? Sarebbe più opportuno parlare, semmai, di “vittoria di Pirro”. Quando e se però le aziende automobilistiche cinesi decideranno di investire in Italia, lo faranno in ritardo rispetto a quanto fatto negli altri Paesi e in misura minore. Il governo italiano può sempre sperare in Stellantis (che include Fiat), che a maggio ha annunciato di aver formato una joint venture con Leapmotor, una startup cinese di auto elettriche per iniziare a vendere EV in Europa. E poi? Calma piatta o quasi, almeno nei settori dell’automotive. Anzi no: pare che alcuni ministri del governo italiano girino a bordo di Volvo, e cioè auto di fatto made in China...