Claudio Amendola, figlio di cotanto padre e un tempo idolo delle donne, ha deciso di rendere omaggio alla trippa – nel vero senso della parola- aprendo il suo terzo ristorante nella storica Via della Frezza, tra Piazza del Popolo e il Mausoleo di Augusto. La zona gode ora di un recente rilancio, grazie alla riqualificazione del celeberrimo Monumento e al sorgere dello scintillante Hotel Bulgari, nato sulle ceneri della vecchia sede Inps. C’è da dire che la decisione di Amendola di apportare il suo personale contributo culinario è lodevole, vista l’imperdonabile lacuna di piatti della più verace tradizione romanesca sulle tavole della ristorazione capitolina. Camminando dunque di sera sugli eterni – per metà divelti- sampietrini romani, con l’arietta fresca di inizio estate, ci troviamo davanti le tre vetrine su strada di quella che si presenta come una rivisitazione contemporanea di una tipica vecchia osteria romana.
Tavoli di poche – ma sempre troppe - pretese distribuiti in due sale, una vecchia madia, sedie da osteria tirate a lucido a ricordare l’ambiente familiare e ‘sciallo’ di un tempo e coperti usa e getta; il tutto immerso in una notevole inenarrabile caciara. La cucina è ad affaccio su un bancone e i piatti escono fumanti presentati nel famigerato ‘coccio’. Non amo particolarmente i cocci, a meno che non contengano fagioli all’uccelletto e non mi trovi in Maremma, ma tant’è. Cominciamo ad evocare le immagini di capisaldi sacri della Terra dei Cesari come Nando Moriconi, Aldo Fabrizi e Nannarella, per prepararci a gustare prelibatezze dimenticate ormai difficili da trovare. Purtroppo il massimo che riusciamo a fare è rivivere la scena del film di Riccardo Milani ‘Come un gatto in tangenziale’, in cui Sergio/Claudio Amendola, con addome sblusato e allure coatta rincasava a Bastogi dopo un soggiorno al gabbio. Avremmo voluto sorprenderlo al tavolo, Claudio, con le meches bionde e una fetta di cocomero in mano memori di cotanto tripudio in omaggio alla splendida borgata nostrana, ma siamo sfortunati. Pare che la sera di solito non sia presente.
La scelta sul menù della rivisitazione della bomba romana fritta e zuccherata – proposta in versione salata- è discreta. Ma la avrei chiamata col suo vero nome, sinceramente: pizza fritta. In pieno rispetto della tradizione partenopea, dato che quello è. Ma capisco che non sarebbe stato il caso. È proposta in quattro versioni, alla norma, cacio e pepe, con trippa alla romana e con la coda alla vaccinara. Ci siamo accaniti vogliosi su questa pizzetta sormontata di goduriosa trippa, poca per i miei gusti, ma contraddistinta dall’aroma della mentuccia e del pecorino, che predisponeva a quel tipico stato d’animo di grazia di Dio che induce ogni romano ad esclamare soddisfatto ‘daje!’. Un plauso. Insieme sono arrivati i supplì, dalla vistosa panatura crunchy a grana grossa, che conferiva un non so che di ‘moderno’ al re dello street food dei Sette Colli. Il supplì è una cosa seria, ne esistono svariate tristi versioni sparse sul territorio, che andrebbero sottoposte a sequestro e sanzione per reato grave. Questa non è una di quelle ma non si può nemmeno gridare al miracolo. Un supplì. Noi lo abbiamo preso traditional, pomodoro e ragù, ma ne fanno anche in altri gusti.
Per primo abbiamo optato per una mezza porzione di mezze maniche alla carbonara e una pizza con filetti di pomodoro, aglio rosso di Sulmona e origano di Calabria. La regina de Roma, alias la carbonara, indiscusso orgoglioso vessillo nel quale rifugiarsi quando ‘a Maggica perde -più che altro qualsiasi motivo è sufficiente per un fijo de Romolo- si presentava in una piccola pirofila letteralmente traboccante di crema di uovo e formaggio. Rilevate modeste quantità di guanciale ‘a fettine’. Attenzione. Avendo approcciato in vita mia ad innumerevoli carbonare pallide e grumose sormontate di ettogrammi di cacio ignorante e di bassa qualità, mi sento di lodare quella di Claudio per la capacità della crema di amalgamarsi al formato di pasta al dente e per sapidità e croccantezza del guanciale. Di quest’ultimo non si rimpiange – troppo- il classico taglio a listarelle cicciotte. Avremmo poi voluto testare una pizza tra le varie presenti, alle puntarelle – ma, nota dolente, le puntarelle erano terminate; perché proporre sul menù piatti non presenti in cucina? - Abbiamo ripiegato sulla loro rossa, della quale esprimiamo un sincero ‘per me è no’.
Un disco senza arte né parte, ove i famosi filetti di pomodoro appaiono come semplice passata. Riarsa, senza ombra di un filo d’olietto. Trascurabile il famoso aglio rosso di Sulmona, del quale si avverte un debole sentore ma non l’effettiva presenza, sul pallore generale spruzzato di origano. Per secondo abbiamo scelto, le polpette al sugo ‘come le faceva nonna’, o almeno speravamo, ma per quanto di buona consistenza, con macinato a grana grossa e colme di sugo al basilico, quelle di Nonna – la mia - erano migliori. Un plauso per il baccalà pomodoro, zibibbo e pinoli, assente in tante, troppe tavole romane, qui è buono ed è pure fritto prima di essere messo nel sugo, come ricetta comanda. Niente contorno per via del fatto che due su tre, scritti sul menù, non erano disponibili. Purtroppo i due mancanti erano esattamente quelli che avrei ordinato, il carciofo alla romana e le succitate puntarelle. Perché riportarli nel menù? Nel complesso la lista di secondi della tradizione non è male, comprendente anche il pollo alla cacciatora, gli involtini, la coda e la trippa in rappresentanza del ‘quinto quarto’. Menzione negativa anche per l’assenza della zuppa inglese tra i desserts, abbiamo assaggiato la torta della nonna, non della casa. Mangiabile. Acqua per due elargita dal nostro Gualtieri, niente pane, né caffè e amari, per quanto la lista degli ultimi fosse di tutto rispetto, come quella dei vini e delle birrette. Il prezzo? Sessantaquattro euro. Ci tornerei? Per un’emozione da poco, citando una Anna Oxa d’annata.