La resa dei conti con il passato che non passa mai, quello in fez e camicia nera. Le analogie con il presente, in particolare con una guerra in Ucraina divenuta sfondo rosso sangue della nostra normalità. Il futuro che ai giovani appare nel segno di un demoralizzante interrogativo, se non di un buco nero privo di speranza. E poi il ruolo, sottovalorizzato, delle donne nella società italiana, ancora e sempre maschilista. E infine la crisi e le potenzialità del giornalismo, il mestieraccio che ancora ha, eccome se ce l’ha, una chance, non soltanto di sopravvivere, ma anche di prosperare. Di tutto questo abbiamo discusso nell’intervista che segue con Agnese Pini, direttrice del quotidiani del gruppo Monrif (Quotidiano Nazionale, Il Giorno, La Nazione, Il Resto del Carlino). Da alcuni giorni è nelle librerie con un libro, “Autunno d’agosto” (Chiarelettere), a metà fra memoriale e saggio, in cui la storia della sua famiglia, rimasta vittima dell’eccidio nazifascista del 17-19 agosto 1944 a San Terenzo Monti, sull’Appenino toscano, si dà come lente d’ingrandimento per parlare dell’Italia della guerra, del dopoguerra, e anche di oggi.
Il 25 Aprile è passato, con le sue puntuali polemiche sul fascismo e l’antifascismo. Mettendo da parte ogni retorica, cosa c’è secondo lei di realmente attuale, che parli al nostro presente, nei dibattiti sull’esito della Seconda Guerra Mondiale? Ovvero, riferendoci al suo libro, che cosa, di quelle testimonianze di ieri, parlano dell’Italia di oggi?
C’è più di uno spunto da quel biennio ’43-’45 che ci riporta all’attualità. Da un lato c’è sicuramente la guerra in Ucraina, e cioè che è la prima guerra d’invasione in Europa proprio dal 1945. Il paragone con altri conflitti che sono avvenuti in Europa non sono giusti…
Ad esempio l’attacco aereo della Nato alla Serbia?
Quella all’Ucraina è una guerra di invasione che per importanza militare, violenza e dinamiche è davvero la più paragonabile alla guerra terminata nel ’45. E questo non può che stimolare e suscitare riflessioni, come infatti le ha stimolate e suscitate in questo anno e mezzo, in particolare con la nostra Resistenza, con i nostri partigiani, e di conseguenza rispetto alla necessità o meno di intervenire in aiuto, ovviamente facendo tutti i distinguo del caso. L’altro dato storico, oggettivo e inequivocabile, è che proprio dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, per la prima volta il partito di maggioranza relativa che governa il Paese ed esprime il Presidente del Consiglio si rifà in filo diretto al Movimento Sociale Italiano, che nacque dalle ceneri del Partito Fascista. Questo è un fatto che ci obbliga a fare i conti con il fascismo e con quell’orrenda e tragica esperienza che furono gli anni della guerra.
Nel libro lei racconta anche del ruolo che nella strage ebbero i fascisti della Brigata Nera di Livorno, che, dopo una condanna all’ergastolo, godettero dell’amnistia voluta dal ministro della Giustizia, Palmiro Togliatti, cioè dello storico segretario del Partito Comunista. Anche la Democrazia Cristiana che vinse le elezioni-spartiacque del 1948 non si fece molte remore ad amnistiare, di fatto, la burocrazia e gli apparati dello Stato che erano stati gli stessi del Ventennio. Era davvero possibile, come invece lei ha scritto, una Norimberga italiana?
Evidentemente non è stata possibile per ragioni di Stato e di governo che, se immedesimo in quegli anni, posso anche comprendere. C’era un Paese distrutto e lacerato da una guerra anche civile, e che nel dopoguerra rischiava di caderci di nuovo, in maniera reale, concreta, e quindi la scelta delle amnistie (la più famosa fu quella di Togliatti, ma non fu l’unica), fu dettata dall’esigenza di non privarsi di una macchina statale che era inevitabile fosse eredità del periodo fascista, visto che era durato vent’anni. Ripartire da zero, dalla tabula rasa, era oggettivamente impossibile. Con gli occhi dell’oggi, invece, dobbiamo dirci una cosa: quel tentativo di pacificazione, nell’immediato necessario, alla lunga ne ha creata una solo apparente, diciamo pure all’italiana, e l’effetto ce lo raccontano in seguito il terrorismo, gli anni di piombo, la ferocia della polarizzazione ideologica in campo. Senza contare l’aspetto, non trascurabile, della giustizia: non c’è pace reale senza giustizia. Sui crimini di guerra, di giustizia n’è stata fatta troppo poca, in Italia, dopo la fine del conflitto. Così le ferite rimangono aperte. Si possono chiudere in apparenza, ma è una chiusura sotto cui resta il male.
Sua bisnonna morì nell’eccidio, e la figlia, ovvero sua nonna, non seppe mai dare un nome e un volto ai criminali di guerra nazisti suoi assassini. Per loro, per i tedeschi responsabili della strage, come andò dopo la guerra?
La maggior parte tornò alle proprie case e alle proprie famiglie, a vite “normali”, comuni, qualcuno si è addirittura candidato alle elezioni. È stato solo per merito di un magistrato, il procuratore militare di Spezia, Marco De Paolis, che siamo riusciti a risalire ai nomi e cognomi di quei nazisti che presero parte attiva ai crimini di guerra. Grazie alle sue indagini, fatte sessant’anni dopo i fatti, e quindi molto complicate, è stato possibile sapere chi furono gli esecutori materiali di quella carneficina. La cosa impressionante, e che riporto nel libro perché me l’ha raccontata De Paolis, è quanto la maggioranza di questi nazisti, per quanto anziani e fiaccati nel corpo, odiassero ancora gli italiani, li odiassero di un odio razziale, senza nessun tipo di senso di colpa, di vergogna, di rimorso.
Cosa significò per le famiglie italiane, non solo quelle coinvolte in questa vicenda, ma in tutte la rappresaglie commesse dagli invasori del Terzo Reich, non avere giustizia, se non magari in alcuni casi e molti anni dopo?
Per le famiglie italiane non avere giustizia ha significato non poter dare un senso, e quindi una dignità all’accaduto. È stato un trauma nel trauma. La giustizia non affievolisce il dolore della perdita, ma gli dà un significato. Ottenere giustizia significa stabilire una verità dei fatti che non è soltanto giudiziaria ma anche storica. I morti per crimini di guerra in tutta Italia, da Nord a Sud nel biennio ’43-’45, furono 25 mila. Numeri così alti che chiaramente questa ferita, che ha riguardato collettivamente un Paese, ha anche impedito una memoria condivisa.
Il paragone continuo con gli anni del fascismo e del nazismo, specie sull’Ucraina, è tornata anche in questi giorni, ad esempio vi ha ricorso Enrico Mentana per criticare l’intervento pacifista del fisico Carlo Rovelli al concertone del 1° Maggio. Ma è davvero utile per capire la realtà odierna, specie riguardo un governo Meloni perfettamente allineato all’Occidente atlantista e che in politica economica, vedasi decreto Lavoro, ne persegue una da classica destra liberale, o liberista che dir si voglia?
Non è un paragone, è un dato storico oggettivo, che deve indurre un Paese adulto e maturo a una riflessione su quella pagine storica. Io ovviamente non sono una storica, e so che per qualsiasi storico fare paragoni diretti con qualsiasi periodo passato è fuorviante. Ripeto, è un dato oggettivo: è al potere un partito che proviene dal Movimento Sociale Italiano che a sua volta veniva dal Partito Fascista, quindi non riflettere su quel è accaduto ottant’anni fa è sprecare un’opportunità assoluta, anche di memoria e di conti con il passato da fare con onestà anche brutale. La polemica che c’è stata in occasione del 25 Aprile è importante perché al governo c’è un partito che viene da quella storia, ed è un’occasione anzitutto per quel partito, così da chiuderli, anche, i conti con quel passato. Possono farlo molto più loro che non la sinistra. Vedi, un giornalista sa che dare una morale alla cronaca è pericoloso e bisogna guardarsene, ma la morale alla Storia va fatta. Dopo ottant’anni di democrazia lo sappiamo e dobbiamo saperlo chi erano i buoni e i cattivi, se mi si passa la semplificazione. E cioè che il fascismo era dalla parte sbagliata della Storia. Questa distinzione va fatta in modo chiaro, netto e senza ambiguità.
Non sono bastate la svolta di Fiuggi di Gianfranco Fini, con il “ripudio” (letterale) del totalitarismo fascista, e le dichiarazioni ufficiali, anche recenti, di Giorgia Meloni?
Penso che siano percorsi complessi e lunghi. Abbiamo visto che il discorso di Fiuggi, che è di vent’anni fa, è stato riproposto oggi: se fosse stato pacifico, nessuno lo avrebbe ritirato fuori oggi, dopo vent’anni. Significa che non è stato assimilato.
Ma Fratelli d’Italia che destra è, secondo lei?
È espressione di una destra conservatrice, e infatti anche in Europa si muove su questo piano, cercando alleanze in quell’area. E fra l’altro sta in una maggioranza al cui interno ci sono forze che provengono da una matrice di destra liberale.
In un suo recente editoriale parla dei ventenni di oggi che vedono il futuro come un orizzonte senza speranza di riscatto sociale. I loro coetanei di ottant’anni fa ce l’avevano, perché dovevano ricostruire un intero Paese. Oggi, la “resistenza” efficace pare quella passiva di rifiutare il lavoro malpagato e non adeguato alla qualità della vita. Manca, forse, quella attiva. Ma con chi dovrebbero farla, per lei? Con i sindacati che fanno finanziare il concertone anche da Just Eat? Con la destra che rende più facili i contratti precari? Con la sinistra delle compagne armocromiste?
Questi discorsi che non si trovano camerieri e che i giovani non hanno voglia di lavorare sono assurdità. Socrate, dico Socrate, sosteneva già una cosa simile: i giovani sono pigri, non hanno voglia di fare niente eccetera. Questo di vedere le nuove generazioni come dei debosciati ce la portiamo dietro dall’alba dei tempi. Detto questo, e al netto delle retoriche, i giovani hanno un problema che è centrale. Non è che negli anni ’60 si vivesse meglio di oggi, ma c’era la speranza. C’era la sensazione di fare sacrifici perché erano un investimento per un miglioramento futuro. Se tu hai questa speranza, i sacrifici li fai. Perché oggi è più faticoso accettare un contratto sottopagato? Anche negli anni ’60 ce n’erano.
Ma non c’era la precarietà lavorativa ed esistenziale di oggi.
Ma c’era la consapevolezza che il futuro sarebbe stato migliore. In altre parole, il lavoro che si faceva oggi avrebbe consentito di stare meglio dei propri genitori domani. Quella è stata una generazione che fece un salto nella qualità della vita che non ha precedenti nella storia dell’umanità, per la rapidità con cui è stato fatto. Siamo passati da un’Italia di agricoltori, che erano i nostri nonni, a una società medio-piccolo borghese con una velocità pazzesca. Allora c’era la percezione di un riscatto, di un avanzamento delle proprie condizioni. Oggi non c’è più. Il percepito di questa generazione è che non invecchierà più ricca di quando è nata e dei suoi genitori. E allora perché devo sacrificarmi? Perché devo accettare un contratto che so che non mi porterà a stare meglio fra due, cinque o dieci anni? Io sono dell’’85, e già la mia generazione aveva questa sensazione, ma in modo più sfumato. Si poteva anche lavorare gratis a vent’anni, sapendo che a 25 avrò uno stipendio con cui mi compro casa e faccio un bambino. E allora, come dici tu, questo è un tema politico, di crisi del sindacato, dei partiti. Io per fortuna faccio un altro mestiere, e la ricetta non ce l’ho.
Un tema, aggiungo, anche culturale: è l’immaginario collettivo stesso a essere colonizzato da una devastante cultura di massa dell’incertezza, dell’instabilità.
Esatto, è un problema di immaginario. Questi ragazzi sono venuti su bombardati da messaggi che gli hanno spiegato che non avranno mai una pensione, non avranno una loro casa, non troveranno un lavoro stabile, e che se va bene ne avranno uno in nero, e insomma che oggi non sanno cosa faranno domani. Possono prendere otto master, quindici lauree, andare ad Harvard e fare l’Erasmus, ma comunque non ci faranno nulla.
E quindi si chiedono e si rispondono: chi me lo fa fa’?
Certo, ed è una domanda giusta. E vorrei vedere se i nostri nonni avrebbero dato una risposta diversa.
Lei è l'unica direttrice donna di importanti testate nazionali. Consapevole che sto chiedendo all’oste se il vino è buono, qual è il valore aggiunto delle donne nei posti di comando? In cosa consiste esattamente la diversità in positivo del femminile, nelle posizioni di potere?
Guarda, non è questione di meglio o peggio: io penso che anche le donne debbano avere i posti che hanno gli uomini. Non abbiamo niente da migliorare, abbiamo da lavorare. Dobbiamo poter partecipare al mondo del lavoro anzitutto dalla base, perché questo è un Paese dove è impiegata meno di una donna su due, e nel Meridione la percentuale scende al 30%. Il problema non è solo nell’eccellenza, cioè nel fatto che ci siano pochissime donne nei posti dove si decide, ma nel fatto che ci siano pochissime donne che lavorano. È un problema di base.
Alla base, diremmo.
Migliorare questo sistema partendo dalla base e arrivando al vertice: è questa la strada per l’occupazione femminile in questo Paese, ed è un lavoro enorme. In Grecia le donne che lavorano sono il 60%, ma la Grecia non è un’eccellenza. L’Italia è una potenza industriale del G7, siamo la seconda manifattura europea, e non impieghiamo nemmeno una donna su due. È spaventoso. La leadership femminile non è migliore di quella maschile, semplicemente in un Paese evoluto e civile ci vuole. Che la situazione sia questa, per ragioni culturali, storiche, di patriarcato o chiamale come vuoi, indica che il problema è che ci siano poche donne che lavorano, non che ce ne siano poche al potere.
Direttrice, a che punto è il giornalismo in Italia? È sempre più un fenomeno di élite, di addetti ai lavori che parlano ad altri addetti ai lavori?
L’informazione tradizionale attraversa da anni una crisi gigantesca. Quando si è in crisi il rischio di pochi che parlano a pochi è un rischio assieme a molti altri che stiamo vivendo e che vivremo. Oggi però c’è una consapevolezza diversa rispetto al passato: i media tradizionali hanno capito qual è la strada per affrontare la trasformazione industriale che porta, detta in modo molto semplice, dalla carta stampata al digitale. Non c’è una crisi dell’informazione, perché siamo nella società più informata della Storia, ed è un passaggio enorme, di rivoluzione epocale, perché si trasferisce un potere all’opinione pubblica che non ha mai avuto. È chiaro che ci sono mille pericoli collaterali: parliamo tanto di fake news, per esempio, perché è chiaro che con una tale quantità di informazione si genera anche una grande quantità di disinformazione. La complicazione per i media tradizionali è legata a un tema dell’industria dell’informazione: passare da un impianto sostanzialmente ottocentesco a uno digitale. Perché i giornali sono in crisi? Perché la trasformazione è molto costosa, servono capitali, e nel 90% dei casi i capitali non ci sono. Non è un caso che il giornale che ha fatto in questo senso la rivoluzione industriale, uno dei pochissimi, cioè il Washington Post, è di proprietà di uno degli uomini più ricchi del mondo, Jeff Bezos di Amazon.
Se guardiamo agli ultimi movimenti del mercato editoriale italiano (gli Angelucci che oltre a Libero e al Tempo comprano anche il Giornale, l’operazione nuovo Riformista e nuova Unità con il duo Renzi-Sansonetti, la cessione di parti del gruppo Gedi) sembra di assistere al solito gioco di editori più o meno impuri, ossia con altri business, che usano i giornali per i loro, per carità legittimi, interessi, a metà fra economia e politica. Dov’è la novità, qui?
Questo è un tema generale da sempre, la differenza oggi è che i giornali da trasformare industrialmente - e questo riguarda editori sia puri che impuri - devono sostenere costi enormi. Io però vedo il bicchiere mezzo pieno, non mezzo vuoto, perché i giornali quanto meno hanno capito qual è la strada da seguire, cosa che non si sapeva dieci anni fa.
E qual è?
Ti ricordi come erano le homepage dei giornali, anche dei grandi giornali, dieci anni fa? Erano piene di gattini. Perché si pensava che l’obbiettivo fosse solo fare click. Oggi si è capito che il sistema è quello di farsi pagare per i contenuti. Si è scoperto, grazie a Dio, che le persone cliccano sui gattini, ma non pagano per i gattini: pagano per la qualità, per leggere cose buone, ben fatte e interessanti. Esattamente come per la carta, il principio non cambia. E questa è una buona notizia per chi fa il nostro mestiere, perché significa che potremmo ancora farlo. Il giornalismo fatto in modo tradizionale offre un vantaggio, rispetto alla comunicazione degli influencer e dei tiktoker, che un grande valore sia per il lettore che per la democrazia: siccome un giornale è fatto di scelte e scegliere implica un margine di errore, questo margine lo riduci grazie al fatto che un giornale è una collettività, viene realizzato da tante persone. È la collegialità a fare la differenza, sono le riunioni di redazione che riducono il rischio di errori. Uno può essere il più bravo del mondo, un genio, ma se è da solo, inevitabilmente rischia di sbagliare molto di più. Per questo invece un giornale di qualsiasi formato, stampato, tv, radio, web, è una garanzia molto maggior di qualsiasi blogger. La solitudine non paga.
Ma per assicurare al giornalismo ottimisticamente un futuro, bisogna pagare. È questa la morale della favola?
Bisogna completare la trasformazione sapendo che i lettori pagheranno solo per la qualità. Cliccheranno su qualsiasi cosa, ma non pagheranno per qualsiasi cosa. Come avviene in edicola, dove comprano esclusivamente per ciò che a loro interessa.