Italia, una Repubblica fondata sui condoni? La Legge di Bilancio del governo Meloni è pronta a entrare in vigore e al suo interno diverse misure introducono sanatorie, risoluzioni di controversie tra erario e cittadini, novità in materia di fisco. Quella che per il centrodestra di governo è l’inizio della tregua fiscale con i cittadini per l’opposizione, capitanata da Giuseppe Conte e dal Movimento Cinque Stelle con un Partito Democratico appiattito sulla retorica dell’ex premier, è una sanatoria per evasori e furbastri. Il sito di analisi economica La Svolta, ripreso da Repubblica, ha indicato le dodici misure che sarebbero alla base della tregua fiscale identificabili a vario titolo come sanatorie o condoni: dalla dichiarazione dei proventi non registrati da criptovalute agli aiuti alle società di calcio oberate dai debiti, passando per la risoluzione agevolata delle liti fiscali e la rottamazione delle cartelle sotto i mille euro erogate dall’Agenzia delle Entrate tra il 2000 e il 2015 molte le misure di questo tipo già oggetto di dibattito politico.
Non si era detto “basta condoni”? Il governo non aveva forse fatto fuoco e fiamme nel giorno del terremoto di Casamicciola sul condono edilizio proposto dallo stesso Conte nel 2018? Come leggere questa situazione? In primo luogo, pur contrari a ogni forma di autofustigazione del sistema-Paese, possiamo dire che, ahinoi, il tema dei condoni massicci è una questione prettamente italiana: altri Paesi come la Francia hanno al massimo concesso per via presidenziale o governativa cancellazioni di multe su sanzioni datate, mentre la Germania nel 2014 ha introdotto un sistema di autodenuncia per regolarizzare i capitali schermati al fisco all’estero da parte dei contribuenti dietro pagamento di una sanzione pari ai mancati incassi dell’erario per il decennio precedente.
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In Italia, invece, ogni governo ha avuto il “suo” condono. Dalla Voluntary Disclosure di Renzi del 2015 al mini-condono sulle cartelle esattoriali di Draghi, passando per il condono di Conte e Matteo Salvini (la “pace fiscale” del 2018). Fa parte della regola del gioco politico (ormai stucchevole) sulla manovra attaccare all’opposizione sulla violazione o la forzatura delle prassi sulla manovra e sulle ipocrisie di chi governa salvo dimenticarsi di ogni priorità “barricadera” al governo. Enrico Letta e Giuseppe Conte, da premier, hanno condonato e in misura non secondaria. Oggi attaccano a testa bassa. Al contempo, nel centrodestra è tutto un fuggi-fuggi dal concetto stesso di condono. Lo stesso termine “tregua fiscale” (non più pace: il fisco è pronto a essere sdoganato di nuovo?) è una versione politically correct della parola “condono”. Giulio Tremonti, in preda a amnesia, ha ricordato che l’unico condono della destra risale agli Anni Novanta dimenticando il ruolo di Lega e Forza Italia nella creazione dei due “scudi fiscali” del 2001 e del 2010 e nella sanatoria del 2003.
La realtà è che il condono è l’unica forma con cui la politica riesce a muoversi nei confronti di un sistema fiscale ipertrofico e che nessun governo è riuscito a gestire in profondità. Schiacciata tra il peso degli oneri europei sul deficit, la spesa corrente in volo per pensioni e stipendi, una crescita stagnante che riduce il gettito e una politica economica spesso di piccolo cabotaggio nessuna formazione di governo può affrontare alla radice la questione dell’eccessivo peso delle imposte. Non necessariamente ogni condono è un regalo ai furbi: condonare multe per cartelle ridotte di valore o offrire soluzioni per risolvere piccole liti garantisce, perlomeno, un piccolo gettito allo Stato e può liberare dalle maglie dei tributi diversi contribuenti. Al tempo stesso però, il problema è morale e culturale: come si può invitare stranieri desiderosi di investire a muoversi nel Paese sapendo che, prima o poi, l’ineccepibilità dei comportamenti verso il fisco può rivelarsi un boomerang, portando a maggiori esborsi? Come giustificare l’atteggiamento di uno Stato intento a farsi esattore più o meno benevolo a seconda del tempo? Difficile rispondere a questa domanda.
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La stessa tregua fiscale del governo Meloni è priva di alcuna logica di sistema e sembra rispondere più alla volontà di piazzare una bandiera politica. Si vogliono liberare i piccoli contribuenti e gli imprenditori in difficoltà dai gangli del fisco, ma al tempo stesso con la riforma sulla flat tax per il regime agevolato portata a 85mila di massimale si regalano risorse a 100mila professionisti a alto reddito, veri vincitori della manovra. Si esalta la produttività e il mito del “fare” ma si favoriscono le rendite finanziarie portando dal 26 al 14%, a patto che si decida di pagare le tasse su fondi e polizze in anticipo, le aliquote sul guadagno da capitale. Tassato, anche se proveniente da rendite ereditarie, meno della più bassa delle aliquote Irpef per i redditi più bassi. Temi che stonano molto con misure come la “Carta del Merito” che sostituirà su basi di limiti Isee e risultati scolastici il 18App. Al contempo, il governo Meloni rischia di trovarsi di fronte a una catastrofe sociale con la crescita della povertà per la fine del reddito di cittadinanza e il combinato disposto con caro-bollette e inflazione.
Insomma, il vero vulnus della serie di condoni settoriali e ad hoc è legato al fatto che aggiungono complessità e caos a questo quadro già pasticciato. E danno l’idea che le sanatorie aiutino, prima di tutto, a far conservare rendite di posizione e nicchie economiche e, di converso, politiche. Venendo promosse come atti ideologici e non pragmatici. Come spesso succede nello stanco e logorante rituale della Legge di Bilancio, che da tempo fa più danni che bene al Paese.