Diciamolo pure: Felix Baumgartner, te la sei cercata. Anzi, te la sei trovata, schiantandoti col parapendio in una piscina di S. Elpidio, zeppa di bagnanti unti di creme e magari con l’alito da mozzarelle.
Sappi che non sei solo. Anche Yuri Gagarin – il primo uomo a orbitare nello spazio – si è immolato in un volo di routine su un caccia sovietico. Per non parlare di Michael Schumacher, sette volte campione del mondo di Formula 1, in condizioni inenarrabili (visto il riserbo assoluto della famiglia) per una caduta sugli sci quasi da fermo.
Destino altrettanto beffardo, per te che sei passato alla storia con quel lancio capolavoro del 12 ottobre 2012, da oltre il nero della stratosfera. Quasi 40 km di un folle volo che ti ha permesso di infrangere record di tutti i tipi, tra cui quello di essere il primo uomo qualsiasi a superare la velocità del suono in caduta libera.
Sì, lo ribadisco, un “uomo qualsiasi”: perché tu eri uno di noi. Caro Felix, mi permetto di celebrare l’uomo normale in te, visto che in queste ore tanti media, avidi di contenuti da ombrellone, ti stanno impestando di paccottiglia gloriosa, citando esclusivamente le tue imprese da eroe degli sport estremi.
L’agiografia sponsorizzata di questo visionario austriaco ha sempre tralasciato di svelarne l’umanità e soprattutto i limiti, quelli veri. Non i fottuti no limits che cospargono di bla bla stucchevolmente adrenalinico le esistenze di questi eroi contemporanei, generatori di like, condivisioni e soldi per i brand.
Io invece ti ho quasi conosciuto: in quei giorni a ridosso della tua impresa, mi sono trovato a dover scrivere un libro dedicato a te, in meno di due settimane – il mio record assoluto da scribacchino – divorando riviste in tedesco che parlavano e gossippavano di te. E alla fine è stato pubblicato per Add col titolo profetico “Nato per volare”, che, per una straniante sincronicità, hai inconsapevolmente citato nel Born to Fly tatuato sul tuo avambraccio.

Pochi sanno, ad esempio, che Felix Baumgartner soffrisse di claustrofobia. E non una cosa da ridere: a pochi mesi dal lancio non riusciva nemmeno a infilarsi l’asfittica tuta da astronauta, progettata apposta per lui dalla Nasa. La chiusura ermetica, il casco, il respiro filtrato lo mandavano fuori di testa. Arrivò perfino a fuggire dagli Stati Uniti, dove si stava allenando da oltre un anno, per tornarsene in Austria. Mollò tutto. Solo dopo mesi di psicanalisi riuscì a riconciliarsi con quella prigione pressurizzata che gli avrebbe permesso di volare.
Altro che superuomo. Solo per questa sua umanità, così fragile e imperfetta, dovrebbe essergli riconosciuto qualcosa. Non solo per la caduta libera: anche per essere risalito da sé stesso.
Felix, inquieto da sempre. Anche solo per essere austriaco. Afflitto, come tanti suoi ribaldi connazionali, dal bisogno di vedere oltre le cime delle montagne attorno. Una sorta di attitudine, complesso, rivalità verso i germanici che rubano un po’ troppo la scena agli altri popoli tedeschi.
Fateci caso: se loro eccellono in automotive e sport di squadra, gli austriaci spaccano in discesa libera, salto dal trampolino e altre pratiche molto pericolose. Teste fredde e calcolatrici. Ne sappiamo qualcosa: ad ogni pugno di grinta serrata nell’aria, dall’emblematico tennista delle Alpi, l’acclamato Sinner, che mo siam tutti pronti alla morte e batti lei Fantozzi.

Mi ricordo, caro Felix, quel 12 ottobre davanti a YouTube: ero uno dei milioni di esseri umani, comuni mortali che aprono l’ombrello quando piove, collegati da ore in diretta. In attesa che tu arrivassi fino a quella pedana magrittiana. E quando, poco prima del lancio, guardavi in giù, vedevo il pianeta tondeggiare ed ero terrorizzato che tu non potessi più cambiare idea: nessuno ti avrebbe più recuperato, se tu non ti fossi lanciato, senza niente a proteggerti, verso quella stessa sfera in cui noi signori X avevamo paura attraverso te. Qualcosa di emozionante e transnazionale, che superava l’eco patriottico e geopolitico delle imprese lunari dell’epoca Usa-Urss. Tu aprivi un nuovo corso, rischiando la vita davanti a una telecamera. Non il solito stupido cimento da tiktoker. No.
Tu ci hai regalato l’attesa e l’ansia, qualcosa che affondava nelle radici nella mitologia, nell’appetito di grandi storie che ci accomuna in quando umani. Gli antichi greci ti avrebbero fatto divinità.
Purtroppo sei stato sfortunato, più di Willie il Coyote, proprio quando meno te l’aspettavi. Ma vivrai per sempre, in quello spazio scuro tra morte senza aria e atmosfera, in cui sei sfrecciato semisvenuto, per piombare – dopo quattro minuti di morte cosmica e rinascita – di nuovo tra noi. I nostri applausi, le news, i selfie, i soldi, le donne e tutto quel ciarlare e proiettare che ci tiene in vita.
Grazie per quei minuti immortali che ci hai regalato. Riposa in pace e continua a volare, caro Felix.
