L’Italia produttiva acclama “papa” Luciano Benetton all’alba dei suoi novant’anni. Ricorrono il 13 maggio e, per l’occasione, la stampa italiana con sede a NordEst – questo il nome della testata che l’ha intervistato – tesse le lodi dell’imprenditore trevigiano creatore di un impero economico con pochi eguali nel nostro paese e indissolubilmente familiare: “Luciano è il patriarca, il primogenito: la sorella Giuliana è di due anni più giovane. Gilberto e Carlo non ci sono più”. La mente associa il marchio Benetton al suo ricordo più vivido, forse per via del colore degli iconici maglioni, anche se quel tempo si è in parte esaurito. Infatti, Luciano, sceglie di non parlare di ciò che non va in un’occasione che dovrebbe essere celebrativa: “La crisi dell’azienda tessile che porta il cognome di famiglia (il ritorno in pareggio è ora annunciato per il 2026, un anno prima del previsto) e gli strascichi della tragedia del ponte Morandi sono nervi scoperti che il fondatore sceglie di non affrontare. Ne prendiamo atto”, fa notare correttamente NordEst.

E, in effetti, il Benetton che emerge dall’intervista è un uomo che trova la propria serenità nel passato, dall’interesse per il restauro – “Mi è sempre piaciuto occuparmi di restauri, restituire nuova vita a spazi vissuti” – a quello per la cura dell’archivio storico per “consegnare storie e documenti alla memoria”. D’altronde, a novant’anni, rifugiarsi nella propria routine diventa quasi un modo per specchiarsi all’infinito in ciò che è stato: “non ho il cellulare, non mi interesso di lavoro, non ho nostalgia né rimpianti, la storia parla”. L’immagine che il patron sceglie di dare è quella dell’anziano sovrano che veglia, come un’eminenza grigia, sul proprio impero, alternando riflessioni sul proprio apparato gastrointestinale: “Colazione abbondante, alle nove sono in ufficio. Se pranzo fuori, non mangio la sera perché non ho fame. Ho un bellissimo orto e sono ghiotto di verdure, mi piacciono tutte. Poca carne e mi astengo dal frumento e dai suoi derivati: in compenso mangio farro, kamut, riso”. Anche le serate in osteria “nel frattempo sono diventati pranzi così non faccio tardi. Una volta al mese con il solito gruppo di amici con il quale ci conosciamo da sempre. Ma sono uscite sempre molto contenute”.

Ma l’apparente clausura dettata da uno stile di vita più prudente e appartato non regge la prova dell’attualità. Luciano sceglierebbe l’Africa se dovesse indicare il luogo del futuro “è un continente giovane, tumultuoso, pieno di ragazzi. E il mondo è dei giovani. I cinesi sono già là, noi stiamo arrivando dopo”. Poi, stanga l’Europa: “Ho l’impressione che si stia adagiando sui privilegi, preferisce non rischiare”. D’altronde, la moda per Benetton è spesso stata mezzo per veicolare un messaggio – su tutti, “United colors of Benetton” – ma ora, “la moda è finita”. “Se guardiamo alle sfilate del lusso, gli abiti che vengono presentati sono praticamente non-indossabili. Allora vuol dire che si vendono gli accessori, gli oggetti del brand e con quelli le maisons fanno i fatturati, non con gli abiti”. Continuando ad accarezzare, l’attualità si può certo poi non tirare in ballo Trump, quanto di più lontano dal Dna di Benetton sparso urbi et orbi dall’obiettivo di Oliviero Toscani grazie a campagne pubblicitarie entrate nella storia. Ma, apparentemente, Benetton la pensa diversamente: “Ero preparato perché riducesse le guerre e invece mi pare che neanche lui abbia la ricetta giusta. Siamo in attesa che tiri fuori le carte migliori che ha”, rivela interrogato sul presidente statunitense. Neanche lui si aspettava così tante guerre, mal tollerate anche per un’avversione al conflitto: “è una perdita di tempo, mi sottraggo e saluto cordialmente di solito”. Ma sul perché dei conflitti dà un’interpretazione tanto cinica e spietata da suonare in qualche modo convincente: “credo che tra le motivazioni vi siano anche quella di svuotare i magazzini di armi che rischiavano di diventare vecchie. Le armi sono come i vestiti: se non li usi non vanno più di moda e quindi credo, per quanto cinico possa sembrare, che vi siano anche ragioni di questo genere”.