Con la rinuncia formale alla candidatura, il presidente Usa Joe Biden si è ufficialmente ritirato dalla corsa alla Casa Bianca. A pesare, il disastroso dibattito con Donald Trump di fine giugno che ha acclarato ciò che giornaloni e media hanno negato per mesi circa la poca lucidità mentale dell’81enne del Delaware.
Ora si apre la caccia al successore, con in pole position la vicepresidente Kamala Harris, che - in attesa dell'ufficialità burocratica - potrebbe essere così la prima donna di colore e la prima indiana-americana a essere candidata alla White House a novembre. Preparatevi dunque a settimane nelle quali Harris verrà esaltata dai giornali “in quanto donna” (perdipiù, di colore) contro il “misogino e sessista” Donald Trump.
“Sono onorata di avere l'appoggio del Presidente e la mia intenzione è quella di guadagnarmi e ottenere questa candidatura”, ha dichiarato in un comunicato. L’endorsement di Joe Biden dovrebbe poter consentire ad Harris di ottenere l’appoggio dei delegati che avevano votato in massa lo stesso Biden alle primarie del Partito Democratico. Harris potrebbe essere affiancata da un candidato vicepresidente proveniente da uno “swing States” come Josh Shapiro della Pennsylvania o Gretchen Whitmer, governatrice del Michigan.
Ok, ma chi c***o è Kamala Harris?
C’è però un problema con la 59enne avvocatessa di Oakland, California. Tra gli americani è ancora molto impopolare, ergo non suscita tutta questa simpatia. Secondo un sondaggio Cbs News/YouGov condotto la scorsa settimana, Kamala Harris farebbe appena meglio di Joe Biden perdendo contro il tycoon con il 47% contro il 52%; secondo un altro sondaggio, questa volta di Economist/YouGov, condotto dal 13 al 16 luglio, Harris è in svantaggio nei confronti di The Donald con il 39% dei consensi contro il 44% dell’avversario.
Come nota Forbes, infatti, la candidatura di Harris presenta alcuni lati positivi: beneficia del riconoscimento del nome e potrebbe rilevare senza problemi la cassa della campagna di Biden, che ammonta a 91 milioni di dollari, dal momento che fa già parte del suo ticket. Ma presenta anche alcuni rischi, tra cui una serie di articoli poco lusinghieri sul suo operato come vicepresidente, segnalazioni di malcontento generale nel suo ufficio e indici di gradimento relativamente bassi.
Certo, rispetto al Biden che abbiamo visto nell’ultimo periodo, Kamala Harris non rischia di confondere Putin con Zelensky e non si blocca ogni tre per due pronunciando frasi incomprensibili. È già qualcosa di questi tempi...
Perché sta sulle p***e ai progressisti
Kamala Harris fa parte dell’ala più centrista e “moderata” del partito democratico. È vicinissima all'ex speaker della Camera Nancy Pelosi e all’ex segretario di Stato Hillary Clinton ma è invisa alla sinistra liberal del partito, quella rappresentata da Bernie Sanders e Alexandria-Ocasio Cortez.
Nonostante questo, la suddetta ala liberal dei dem ha annunciato che sosterrà la sua candidatura alla Casa Bianca. Tuttavia, essere una donna di colore e indo-americana non le basterà per essere una paladina del progressismo. Nata a Oakland, in California, da padre di origine giamaicana e madre indo-americana, prima donna a diventare vicepresidente degli Stati Uniti, Harris è stata Procuratore distrettuale di San Francisco dal 2004 al 2011 e Procuratore generale della California dal 2011 al 2017.
A sinistra molti l’hanno criticata per un passato ricco di contraddizioni che, a loro dire, ha alimentato l'incarcerazione di massa. Harris ha supervisionato circa 1.900 condanne per marijuana come procuratore distrettuale di San Francisco, mandando a processo molte più persone del suo predecessore. Sotto la sua guida, il 24% degli arresti per marijuana ha portato a delle condanne penali. Sebbene in un caso si sia opposta alla pena di morte contro un uomo che uccise un agente di polizia, difesa il sistema di pena di morte della California in tribunale.
Ciliegina sulla torta sul suo “curriculum” tutt’altro che limpido: l’inchiesta di Politico del 2021 che citò 22 fra assistenti ed ex collaboratori e funzionari che descrissero come l’ufficio guidato della vicepresidente Usa fosse sostanzialmente un ambiente di lavoro “tossico” dove vigeva “un’atmosfera “cupa” e spesso “molto tesa”. È vero che dall’altra parte c’è Donald Trump e la scelta, in politica, come diceva il grande Raymond Aron, è tra il “meno detestabile”, ma davvero non c’è di meglio in giro?