Come se non ci fosse bastato il Covid, la Guerra in Ucraina e la questione di Taiwan, ora le fiammate del conflitto esploso il 7 ottobre in Terrasanta sembrerebbero lambire l’Europa con alcuni attentati di matrice apparentemente religiosa. Un ceceno che accoltella un professore in Francia, un signore di origini tunisine a Bruxelles prima di essere neutralizzato dalla polizia belga spara con un fucile d’assalto a due svedesi. Ma siamo sicuri che sia tutto collegato? Abbiamo fatto qualche domanda a Valentine Lomellini, esperta di storia del terrorismo internazionale, Professoressa di Storia delle Relazioni Internazionali presso l’Università di Padova e autrice del volume La Diplomazia del Terrore, edito da Laterza. Hamas, giusto l’altro ieri ha diffuso un video che ritrae uno dei numerosi prigionieri presi in ostaggio dopo l’offensiva che ha colto Israele e la sua popolazione civile totalmente impreparata. Si tratta di una ragazza israeliana con cittadinanza francese. Nel frattempo, il flusso impazzito di informazioni sulla rete trasmette senza sosta immagini di morti ammazzati sul fronte di questo (non) nuovo conflitto, riesploso in tutta la sua violenza il 7 ottobre, le ultime sulla notizia del bombardamento dell’ospedale al-Ahli di Gaza, che avrebbe portato a cinquecento morti; attaccato per cui Israele e Hamas si rimpallano le colpe, mentre i Paesi vicini condannano già Netanyahu. Un vero e proprio massacro di civili, perpetrato mediante una penetrazione in profondità allo Stato di Israele, qualcosa di mai visto prima. A prescindere dalla condanna scontata e doverosa verso il massacro di innocenti su entrambi i fronti, l’azione di Hamas contraddice in assoluto la modalità con cui questa organizzazione si è presentata al pubblico internazionale a partire dalla sua nascita nel 1988 sino ad oggi, ovvero, quello di “centrista” (si fa per dire) tra i vari gruppi terroristici di matrice islamista mondiali. All’articolo dodici della Carta costitutiva di Hamas si parla di una Jihad inevitabile per la liberazione della Palestina, ma diretta solamente contro adulti in età da combattimento. Quest’inversione di rotta è un esempio tra le tante questioni che si possono sollevare attorno all’origine dell’attacco del 7 ottobre, che si configura come un vero e proprio giallo.
Ali Khamenei nel luglio 2020 dichiarava che Israele fosse un obiettivo da distruggere. Aggiungiamo a questo punto un rapporto complesso tra Netanyahu e Biden. Sullo sfondo gli Accordi di Abramo tesi ad isolare Teheran mediante una normalizzazione tra i paesi arabi e Tel Aviv. In questi giorni poi, l’uscita allo scoperto di Xi Jin Ping sulla questione israeliana è stata a favore di uno Stato Palestinese (posizione non lontana da quella di Biden, peraltro). Putin vola a Pechino e nel frattempo tenta di proporsi come mediatore insieme a Xi nella crisi mediorientale, parallelamente allo stallo sul fronte ucraino, ancora aperto. Insomma, se andiamo a sommare a tutti questi elementi la tensione internazionale generalizzata e gli attentati in Europa, non c’è da stupirsi che la gente si domandi se non “siamo forse tornati indietro al 2001”. Abbiamo dunque posto la stessa domanda a Valentine Lomellini, che però ci ha voluto rassicurare (almeno in parte).
Professoressa, siamo tornati al 2001?
L’attacco dell’altro ieri sera a Bruxelles e quel signore fermato con un coltello vicino alla Sinagoga di Torino, francamente, sembrerebbero degli episodi abbastanza isolati, legati ad una dimensione simile a quella dei lupi solitari piuttosto che a quella di attacchi strutturati con alle spalle un’organizzazione terroristica estremamente efficiente. Stando alle notizie di cui disponiamo, credo che i mezzi di comunicazione dovrebbero adottare un atteggiamento molto prudente rispetto alla valorizzazione di una ipotetica “rete del terrore”, da sempre uno dei leitmotif dell’analisi della storia del terrorismo. Anche in chiave retrospettiva, in realtà, questa ipotesi non ha mai trovato un vero e proprio fondamento, escluso il fenomeno di Al-Qaida.
Lei riconosce piuttosto qualche analogia con il periodo degli anni Settanta del terrorismo nazionalista-arabo? O comunque lei crede che con il riaccendersi della mai risolta questione palestinese vi sia un rischio concreto del ritorno del terrorismo nazionalista unito a quello di matrice religiosa qui in Europa?
A mio avviso bisogna assumere il punto di vista dell’organizzazione terroristica e chiedersi quali siano i suoi interessi politici. In questo caso Hamas, a mio avviso, non ha interesse a fomentare una vera e propria ondata di terrorismo in Europa. Certamente mantenere uno stato di tensione e quindi solleticare l’animo di alcuni esponenti che si possono radicalizzare in tempi molto rapidi, ma che afferiscono piuttosto alla dimensione dei lupi solitari come ho già detto, può essere utile, ma non è l’obiettivo principale.
Perché no?
Perché questa situazione è vista dall’opinione pubblica internazionale in modo estremamente dialettico. Ho letto e sentito opinioni di colleghi che fanno risalire nel lungo periodo l’attacco di Hamas contro Israele – seppur non totalmente a torto – agli attacchi di Tel Aviv nei confronti delle popolazioni che vivono nella Striscia di Gaza. Riflettendoci bene, allora, se questo fosse vero, ampliare questa rete di terroristi e organizzare una serie di attentati sul suolo europeo, avrebbe solamente l’effetto di rendere la vicenda palestinese estremamente invisa all’opinione pubblica occidentale. Quindi, se consideriamo l’eventuale ipotesi di piano strategico per destabilizzare l’Occidente, come sviluppato all’inizio degli anni duemila, possiamo dedurre che in questa fase, tale via non sia affatto conveniente, sotto il profilo politico, per Hamas. Dopodiché si può parlare dell’esistenza di elementi irrazionali, ma questo è un altro discorso.
Lei che idea si è fatta riguardo a quella che è già stata definita dai più come una vera e propria Caporetto dell’intelligence israeliana?
Siamo di fronte ad un avvenimento abbastanza inedito, non tanto per le modalità, ma per l’ordine di grandezza delle persone coinvolte, oltre che per la tipologia. Oggi si parla di civili, ma eravamo forse più abituati ad ostaggi maggiormente legati ad una funzione militare. In questi termini vi è un salto di qualità, che però a mio avviso è determinato principalmente dalla volontà di riequilibrare questo conflitto che di per sé è asimmetrico.
Ovvero?
Dunque, poiché Hamas ha una forza intrinseca assai inferiore a Israele, l’idea potrebbe essere quella di fare prigionieri e ostaggi da utilizzare oltre che come scudi umani, come oggetti di negoziato per trovare una via di uscita che appaia accettabile soprattutto da parte di Hamas. Io tenderei, però, a considerare questa condizione in un quadro più ampio che non sia semplicemente quello regionale. L’estremizzazione reciproca delle due controparti va contestualizzato, oltre che alla ricorrenza storica della guerra dello Yom Kippur, ad un quadro instabile delle relazioni internazionali che la favorisce. Non vi sono prove, ma la posizione iraniana da un lato e quella russa dall’altro poterebbero vedere con favore lo sviluppo di una situazione dove in grande difficoltà oltre a Israele si trovino gli Stati Uniti. Non si tratta di trovare un mandante, ma piuttosto di leggere questa situazione come parte di una destabilizzazione globale che trova uno dei propri massimi epicentri nella crisi ucraino-russa. Posta la sfida di Hamas, le cose potrebbero mettersi diversamente anche su quel tavolo negoziale.