Posate la penna e spogliatevi dell’abito dei moralizzatori, indossate quello di esseri umani ognuno con le proprie fragilità e provate a guardare la storia di Vittorio Sgarbi esattamente con gli occhi di una persona qualunque. Di un essere errante come ognuno di noi, di un essere fragile costantemente in bilico tra il torto e la ragione, tra la salvezza e l’inciampo. Non ve lo chiedo per il famoso detto “sarebbe come sparare sulla Croce Rossa”, perché nessuno merita alcuna forma di pietismo o finta compassione. Chi lo detestava è giusto che lo disprezzi anche oggi. Chi non amava i suoi modi è giusto che li critichi anche oggi. Chi non lo riteneva competente (per quanto ciò sia difficile) continui a contraddirlo.
Ma sto leggendo illazioni devastanti sul fatto che lui si sia fatto ricoverare in ospedale pur di non avere un processo come ogni comune mortale e mi sono resa conto in modo preoccupante che il cinismo che ci attanaglia non ci fa fermare nemmeno davanti a un uomo di settant’anni che per colpa di quella malattia di merda, chiamata depressione, non riesce più a mangiare, a scrivere, a lavorare, a parlare con gli amici, i familiari. Non riesce più ad accarezzare le opere d’arte da vicino mentre con un dolce gesto sposta gli occhiali e li poggia sulla fronte.

Si, lui i quadri non li tocca, li accarezza, li osserva da vicino come si può fare con il corpo di una donna, nudo accanto a te dopo aver fatto l’amore. Poggia lo sguardo sui dettagli come si potrebbero innocentemente scorgerete da vicino i capezzoli di una donna. Lui ama l’arte. Lui, in nome dell’arte ha fatto godere il nostro Paese. Ha donato il suo sapere al prossimo e no, non per soldi, ma per quel sentimento chiamato passione. Un sentimento che oggi, chi lo deride o lo vorrebbe vedere morto forse ignora. Tanto quanto ignora chi sia Sgarbi per la nostra cultura. Un innovatore, uno studioso, un profondo conoscitore del patrimonio artistico della nostra patria. E no, non so che cosa abbia fatto, se quello per cui viene accusato sia o meno reale. Ma oggi non mi importa. E non dovrebbe importare nemmeno a chi continua ad accanirsi su questa vicenda dicendo che sia “informazione”. No, non è giornalismo, è un tiro al bersaglio. Perché se Sgarbi dovesse lasciarci sono certa che qualcuno ce lo avrebbe sulla conoscenza.

Io invece me ne fotto perché guardo un uomo, geniale, abbandonato a sé stesso. Un uomo che faceva della gioia e dell’entusiasmo il sale della propria quotidianità. E oggi non gli hanno amputato una gamba (per lui sarebbe stato decisamente meglio), ma si è inceppato proprio lui, il cervello, quell’organo che tutto gli faceva creare, fare, quell’organo che lo faceva anche, molto spesso, sbagliare. Quindi no, non parlerò di giustizialismo o complottismo. No, non voglio puntare il dito contro nessuno. Ma voglio chiedere. Cosa? Rispetto. Comprensione cristiana. Per un uomo, Vittorio, che purtroppo è stato il suo stesso male. Ci ha pensato da solo a ferirsi, autodistruggersi, recriminarsi fatti che non avrebbe dovuto commettere. C’è solo una cosa davanti alla quale il mondo deve saper dire basta, e quella cosa si chiama malattia.
Ecco, chi cade in disgrazia dovrebbe avere sempre la possibilità di vedersi tendere una mano, guancia, parola di conforto. Perché è questo che ci distingue da coloro di cui abbia paura. È questo l’X Factor che noi possediamo. Facciamoci degli scrupoli, chiediamoci se noi vorremmo tutto ciò. E poi agiamo. Ma non prima di esserci posti domande, perché il dubbio è il sale del progresso, è il rimedio contro la demagogia, è il perno che ognuno di noi dovrebbe avere per potersi si, finalmente, definire democratico. Eh sì, la democrazia, quel termine di cui ora si abusa molto ma che forse purtroppo riguarda pochi eletti.
